Un tranquillo posto di campagna

di Elio Petri (1968)

A METÀ TRA GOTICO E DADAISMO, DA UNO DEI REGISTI ITALIANI PIÙ ORIGINALI DEL SECOLO SCORSO FINALMENTE IN HD il suo film più sperimentale e anticonformista e – come spesso accadeva in quegli anni – quello maggiormente OGGETTO DI DISCUSSIONE.

durata: 107’
produzione: Italia
cast: Franco Nero, Vanessa Redgrave, Georges Géret, Gabriella Boccardo, Rita Calderoni
sceneggiatura: Elio Petri, Tonino Guerra, Luciano Vincenzoni
fotografia: Luigi Kuveiller
musica:  Ennio Morricone, Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza

…discussione in realtà scaturita più in seno al pubblico (il film non ebbe il successo di sala che meritava) che alla critica, ma resta oggi sicuramente tra i film più ostici del geniale regista romano, capace di dirigere pellicole sempre fortemente peculiari e aperte all’esplorazione di generi diversi.
Ispirato in parte alle “Divagazioni nei territori confinanti – La bella adescatrice” di G.O. Onions di inizio secolo scorso così come a un certo immaginario di Poe (citato in forma di libro letto dal protagonista), la sceneggiatura viaggia spedita come un treno – attraverso uno scenario intriso appunto di fantasmi del passato – sui binari di una graduale presa di coscienza della propria condizione di artista moderno assoggettato alla volubile sensibilità estetica della classe abbiente.

Nei suoi riferimenti tematici riconducibili a quelli della tradizionale ghost-story, Petri asseconda una crescente tendenza che stava prendendo piega nella produzione di quegli anni in Veneto, così come un certo tipo di giallo dalla tinte occulte (sulfurea la ripresa dei volti di alcuni partecipanti alla seduta spiritica, amalgamati con l’oscurità da cui sembrano affannosamente fuoriuscire).

Ma non solo: la spettralità che il protagonista, il pittore di successo Leonardo Ferri [Franco Nero] vive e teme è anche quella di una contemporaneità opprimente che grava sulla sua genuina ispirazione artistica fino a soffocarne – metaforica in tal senso la letale copertura di pittura rossa degli alberi della villa ‘maledetta’ – la linfa vitale.

Fil rouge in tutti i sensi che percorre anche gli episodi di sangue (es. il quasi splatter finale in cui il pittore immagina di aver fatto a pezzi la propria compagna, di avvolgere i pezzi di corpo in giornali per poi surgelarli e infine ripulire i coltelli usati nella lavapiatti) o feticistici (il frammento di vestito rosso, appartenente alla contessina morta Wanda da cui lui è ossessionato, come d’altronde tutto il paese in cui è andato a vivere).

Partecipazione quasi metafisica quella di quest’ultima, presente solo nell’analessi della struttura narrativa: la figura femminile affetta da ninfomania e foriera delle tante zizzanie sociali medio-borghesi è interpretata da Gabriella Boccardo [N.B. accreditata come “Grimaldi”], attrice dalla breve carriera (5 anni ca) e sorella della più nota sorella Delia dallo sfortunato epilogo professionale.

E restando in tema di sessualità, anche su questo piano è evidente fin dall’incipit – che vede Ferri quasi annoiato oggetto di bondage da parte dell’amante-agente Flavia [la mai deludente Vanessa Redgrave] – l’importanza che riveste all’interno della storia.

E’ passione pura, carnalità irrequieta quella trasmessa dalla bocca della donna che morde il corpo di Nero in più occasioni del film; ben oltre l’ovvia complicità di una relazione vera dei due attori fuori dal set.

Così come è suggestivamente efficace l’abbandono di lei tra le mani di lui (bellissima la sequenza in cui Nero palleggia sempre più velocemente la testa della Redgrave, ma va riconosciuto quanto Petri sia sempre stato un fine osservatore dell’intimità umana). Certo, di Flavia resta indigesta per lo spettatore l’avidità, confessata in scena quando teme di perdere Leonardo; lei che non esita a sfruttarlo anche dopo che è stato portato via incappucciato dagli infermieri o non replicare al marito – probabile ‘cornuto contento’ – che esclama: “(…)non ha mai lavorato così bene”; ed è sicuramente di cattivo gusto l’atteggiamento materno adottato (es. l’auto-appellativo “mammina” nei momenti intimi) per tenerlo stretto al suo capezzale, salvaguardando gli interessi di ‘famiglia’. Il dubbio che il suo amore più volte dichiarato sia fragile è perfettamente riassunto nella sua asserzione: “l’importante è che tu lavori…e che tu sia felice”.

Piccola parentesi: ancora non casuale, l’espressività fanciullesca della voce adottata da Nero per enfatizzare questo aspetto. Ma è d’altronde questo contrasto che apre poi la strada all’aspetto importante, quasi catartico, di crescita morale di Ferri.

Crescita indotta da una crisi artistica, ma anche dalla progressiva consapevolezza del suo ruolo sociale di uomo sfruttato; e con finezza psicologica di nuovo metaforicamente resa dall’emancipazione sessuale di un’ossessione verso un’altra donna/fantasma o gli sguardi di sbieco verso l’avvenente cameriera (fino a toccarne il seno, a guisa di ricerca di una nuova figura para-materna) senza dimenticare le storie piccanti pubblicate sulle riviste porno, inizialmente replicate in compagnia di Flavia e alla fine del suo percorso, quasi onanisticamente lette in solitudine nella struttura di igiene mentale.

Dove qualcuno ha trovato meno evidenza (ma non sostanza, per quanto nella successiva Trilogia della Nevrosi il suo messaggio sia più lapalissiano) in merito alla sua tipica vena di critica socio-politica, subnaviga in realtà una forte critica al consumismo e mercificazione dell’arte. E’ palese fin dal sogno iniziale, nell’esposizione dei più disparati oggetti elettrificati, anche i più inutili (fino all’apice della piccola auto per spostarli all’interno della casa) e prosegue con lo stimolo coercitivo alla creatività (paradigmatico in tal senso i calcoli di proventi basati sulla produzione necessaria di tot metri di tele dipinte…ma non troppo grandi: pena l’esclusione del “supermercato” delle gallerie d’arte).

E ovviamente non manca la piaggeria verso i collezionisti (sorta di azionisti della genialità ufficializzata), tra cui il più importante è proprio il marito di Flavia in un – mi si perdoni il gioco di parole – quadro di forte critica a quella che è stata (ed è) la ‘grande fuffa’ dell’Arte Astratta.
Ferri per primo inizia a nutrire dubbi sul suo stesso valore, partito da produzioni reputate ‘cheap’ e ora assimilabili per quotazione a quelle di Gianbattista Tiepolo. Chiede a un collezionista cosa lo spinga ad acquistare i suoi dipinti (la replica include un “perché sono un buon investimento”). Si trova a rispondere – al cospetto di un’invitata che ravvisa una “crisi di un artista” nei suoi lavori – che si tratta piuttosto della “crisi di uno stronzo, signorina” (cit.). E auspica al contempo un mondo in cui dovrebbero essere gli altri ad avere il diritto democratico di dipingere gratis, dai bambini agli anziani, di imbrattare tele come lui che fondamentalmente è stato semplicemente decretato dal sistema come più fortunato, ma niente di più.

Parentesi questa che richiama l’attività del pittore coinvolto nel film [Jim Dine], ai tempi emergente, ma da lì a pochi anni straquotato, con sommo disperazione di Nero o Petri che quasi deridendolo si rifiutarono al tempo di comprare le sue tele. L’artista neo-dada affiancò Nero per tutta la durata nel film ‘insegnandogli’ le regole del mestiere e non è quindi un caso che la sua originale performance / tecnica pittorica risulti così credibile allo spettatore.
L’astrattezza della materia trattata trova un perfetto complemento nella colonna sonora di Morricone, compositore che va a spezzare (dopo gli ottimi contributi passati di Piccioni, Rota, Bacalov, Trovajoli, etc) la quasi ferrea regola di Petri di cambiare musicista per ogni nuovo film: i due non si sarebbero più separati. Aiutato dallo storico collettivo GINC [Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza di Franco Evangelisti, che si era fatto le ossa negli anni 50 nella leggendaria Internationale Ferienkurse für Neue Musik di Darmstadt], Morricone affianca a partiture dissonanti rielaborazioni estemporanee, destrutturandole fino a ottenere qualcosa che attraverso il sacrificio della melodia e armonia arriva a esprimere magistralmente l’aura vivida, ma impalpabile del film.

Completa la natura sperimentale della pellicola – oltre le inquadrature di sbieco o attraverso pertugi architettonici frequenti in Petri – il montaggio: volutamente frastagliato, pieno di possibili flashback, ma soprattutto flash-forward che traducono in immagini transfer, proiezioni/immedesimazioni e suggestioni del protagonista. E quello che abilmente mette in pratica Ruggero Mastroianni è qualcosa che prende d’assalto lo spettatore dall’inizio, dai montaggi alternati di possibili parallelismi tra realismo e la finzione di messe in scena teatrali (es. accoltellamento nella vasca da bagno), brevi sequenze di possibili scelte (es. lo studio dei passaggi pittorici) fino alla trasfocatura intermittente finale, trascinandolo in un vortice di suggestioni certo visive, ma anche psicologiche, dove realtà e fantasia psichedelicamente e indistintamente si miscelano – in empatia con l’incipienza della follia del protagonista – attraverso un substrato onirico.

E’ probabile che questo pesante impatto espressivo decisamente poco conforme alle aspettative fruitive del tempo abbia destabilizzato gli spettatori di allora: effettivamente la soglia dell’esercizio di stile viene talvolta rasentata, al punto da quasi abusare delle qualità attoriali dei protagonisti, fino a disinnescarle in alcuni punti, ma quello che resta è comunque un piccolo gioiello di avanguardia filmica che gode – cosa non scontata nell’ambito di tanto intellettualismo fine a se stesso – del pregio di essere narrativamente strutturato e dove trovano posto tanto attimi di guizzo geniale quanto altri di forse più meditativa ricerca stilistica per quella che poi andrà a costituire la sua straordinaria impronta registica per la produzione a seguire.

Sorvolando sulle solite difficilmente reperibili edizioni blu ray import realizzate all’estero/per l’estero, il film era uscito in Italia nel 2005 per la Videa CDE e distribuita dalla Moviemax Media Group solo in formato DVD, fuori catalogo da tempo.
L’edizione Blu ray invece da me visionata è quella realizzata tramite un nuovo scan HD del film, pubblicata grazie a uno degli abituali (e abbordabilissimi) crowdfunding organizzati dall’italiana CG Entertainment: slipcase con nuovo artwork contenente un amaray trasparente con copertina a stampa bifacciale che mostra sia la locandina originale che l’elenco dei crowdfunder) – codice EAN: 8057092037508. Tiratura limitata a 500 copie numerate.

A cura di Luigi Maria Mennella © 2022.


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