durata: 117’
produzione: USA
cast: Brendan Fraser, Hong Chau, Sadie Sink, Ty Simpkins
sceneggiatura: Samuel D.Hunter
fotografia: Matthew Libatique
musica: Rob Simonsen
Sorvolando sullo sterile coacervo di polemiche che seguono quasi sistematicamente film che trattano tematiche di questo tipo, quando l’infermiera e amica Liz [Hong Chau] minaccia scherzosamente d’infilzare il protagonista Charlie [Brendan Fraser, meritatamente premiato agli Oscar] e lui risponde che non può ucciderlo perché non raggiungerebbe (per via dell’adipe) gli organi vitali, il regista mette qualcosa in scena che va oltre la semplice battuta. A guisa di profezia e quasi ispirato da questa rassicurazione per tutta la durata del girato Aronofsky colpisce lo spettatore consapevole di non ucciderlo, ma riuscendo a stremarlo emotivamente; oltre un’artificiosa e forse superflua accentuazione del disgusto che lascia piuttosto spazio a un genuino senso di sincera pietà. Fino a quando il brevissimo ‘slancio’ fantastico nell’epilogo – unico attimo di scollamento veristico antipodico con le difficoltà masturbatorie dell’incipit – assurge a meritata liberazione. Per il protagonista e per noi, empaticamente coniugati fin dai primi minuti grazie a un’accorta regia capace di farci percepire il continuo sforzo esistenziale di Charlie, in primis nei movimenti di macchina perfettamente sincronizzati con la sua difficoltà a voltarsi. La vicinanza spettatore-interprete viene infine favorita da altri accorgimenti. A partire dall’utilizzo di una location unica, in pratica palcoscenico della sua misera vita/prigionia su cui entrano ed escono personaggi (secondari nel ruolo, ma anche nella caratura) dalle quinte della cosiddetta ‘normalità’ e che richiama d’altronde l’origine teatrale del testo [Hunter è autore oltre che della piece anche della sceneggiatura]. Palcoscenico dove le rare aperture verso l’esterno non raggiungono mai la profondità di campo di un orizzonte, evitato con lo sguardo abbassato, quasi a volerci negare qualsiasi speranza evolutiva. Non ultimo l’aspect ratio (4:3) che rende più intimo e asfittico – complice anche la fotografia volutamente cupa di Libatique – l’ambiente e accentua l’esuberanza fisica del protagonista sulla cui obesità scenica è stato compiuto uno straordinario lavoro prostetico. L’amabile umanità e lo spirito di sacrificio, assolutamente concreto che cozzano con l’effimera verbosità della religione omofobica porta-a-porta fanno il resto. La generosità di Charlie è pari alla sua stazza e nel misticismo laico di Aronofsky – in questa pellicola decurtata della sua tipica visionarietà a favore di un sentimento a cui solo i più cinici potranno accodare un “-ismo” – essa diviene il martirio di chi pur avendo “sbagliato”, perché distolto dall’amore terreno, rinuncia al suo bene più prezioso. E lo fa con determinazione pur di raggiungere quel genere di sazietà che nessun cibo ancora gli ha dato: la pace genitoriale, la consapevolezza di aver assicurato serenità almeno alla figlia [Sadie Sink, anagraficamente ventenne e convincente quando si tiene distante da eccessi degni di una Mercoledì Addams]. Su tutto il resto, forte anche di un solido equilibrio intellettuale che oscilla tra Seneca e il “Single Man “di Ford (ARTICOLO QUI), Charlie si è psicologicamente preparato da tempo, ma decide – con intercessione del regista – di coinvolgerci nella posa dell’ultimo doloroso tassello e il risultato è uno dei film più toccanti degli ultimi anni. La musica mai invasiva e ricca di armoniche di Simonsen viaggia discretamente lungo il film, quasi risentisse della pesantezza di Charlie, ma segnalando la propria pulsante esistenza. E si libera infine, senza clamore solo in un finale dove gli archi consegnano il testimone a un gioco di drones e delicati canti di balene.
A cura di Luigi Maria Mennella © 2023.
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