durata: 92’
produzione: USA
cast: Christina Raines, Chris Sarandon, Eli Wallach, John Carradine, Burgess Meredith, Ava Gardner, Christopher Walken, Martin Balsam, Arthur Kennedy, Jeff Goldblum, Jerry Orbach, José Ferrer, Sylvia Miles, etc
sceneggiatura: Michael Winner, Jeffrey Konvitz
fotografia: Richard C. Kratina
musica: Gil Mellé
Questo gioiellino di horror old-fashioned massacrato dalla critica del periodo, a metà tra kitsch d’autore e innegabili presupposti di cult, prende vita dallo scarso successo editoriale – almeno nella prima fase non tascabile – dell’omonimo romanzo di Jeffrey Konvitz (che collaborò alla sceneggiatura). Quello che Winner ‘confeziona’ – ed è il caso di usare questo verbo – è un prodotto estremamente vendibile, anche a distanza di anni, professionale per il periodo (regia precisa, fantasiosa e ricca di trovate se non originali sicuramente ben riuscite), fortemente debitore verso la precedente produzione polanskiana e che sulla scia dell’interesse destato per la contrapposizione manichea Dio/Satana dal seminale “L’Esorcista” di Friedkin arricchisce questo immaginario con alcune soluzioni memorabili. Il cast coinvolto è generoso di nomi importanti già allora o comunque promettenti, seppur poco valorizzati dallo script redatto in sole due settimane. Unica nota stonata un surrealisticamente rigido Chris Sarandon (che pur si era fatto notare per la candidatura all’oscar nell’ottimo “Quel pomeriggio di un giorno da cani” di Lumet) imposto e poi ripudiato dal produttore a scapito di Martin Sheen, scartato perché aveva fatto troppa televisione. Idiosincrasie di quel periodo storico del cinema… L’affascinante e dalla carriera brevissima (si è poi dedicata all’attività infermieristica) modella e poi attrice Cristina Raines offre una buova prova attoriale, sottolineata da un’innata grazia che ha distratto lo spettatore da qualsiasi possibile carenza orrorifica. E in tal contesto, dopo una prima parte giocata nei meandri del logorio psicologico e un thrilling quasi onirico che non disdegna influenze giallistiche – con inserti di coraggiosa oltraggiosità visiva per il periodo (masturbazione inclusa) – avviandosi verso il finale Winner metta in scena una catabasi tanto fisica (la lapide nascosta con i versi Danteschi, incipit dell’“Inferno”) quanto psicologica (il confronto morale con i dannati e l’accettazione della propria missione/sacrificio). Ciascun attore coinvolto (ma direi anche animale) e a qualsiasi livello offre un significativo contributo corale alla felice riuscita del film che anche in ragione di questa particolare attenzione al casting guadagna punti in termini di memoria: da un lato la subdola agente immobiliare (Ava Gardner), il malfidato ispettore di polizia (Eli Wallach), il sacerdote che guida la protagonista verso il suo destino (Arthur Kennedy), l’invadente, ma delizioso vicino di casa (Burgess Meredith), il quasi irriconoscibile John Carradine (padre Halloran, la Sentinella cieca in carica fino al finale) e dall’altro semplici cammei (Christopher Walken come secondo detective, Jeff Goldblum come fotografo della modella o il caratterista Martin Balsam nei panni di uno smemorato studioso di lettere antiche). Notevole l’impianto scenografico, soprattutto tenendo conto che Winner era solito lavorare con location reali, ripudiando i teatri di posa. Il commento sonoro di Gil Mellé si allinea sullo stile didascalico del periodo, ma senza raggiungere l’invadenza di Jerry Goldsmith (il cui brano “Ave Satani” resta indubbiamente un capolavoro) nell’altra pellicola seminale dell’anno prima (“The Omen”). Per il gran finale che omaggia Browning, anche per risparmiare sul budget, sono stati coinvolti veri ‘freaks’ (incluso lo sfortunato performer Robert Melvin affetto da neurofibromatosi) realizzando una delle sequenze più impressionanti di questa pellicola destinata ad essere un must have nella videoteca di qualsiasi appassionato del filone demoniaco.
A cura di Luigi Maria Mennella © 2022.
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