The Lighthouse

di Robert Eggers (2019)

Tre minuti iniziali per delineare un’opera magistrale che partendo da un’estrema raffinatezza formale ricca (leggi “satura”) di riferimenti culturali sviluppa una peculiare claustrofobica atmosfera di logorante convivenza umana. LUOGO RELAZIONALE QUESTO dove l’orrore – e qui Eggers dimostra di conoscere bene il paradigma lovercraftiano – non si traduce in baracconate hollywoodiane, ma nuota tra le rive della labilità psicologica per frantumarsi sulla scogliera del delirio mitologico.

durata: 109
produzione: USA / Canada
cast: Willem Dafoe, Robert Pattinson
sceneggiatura: Robert Eggers, Max Eggers
fotografia: Jarin Blaschke
musica: Mark Korven

Che Eggers fosse un autore promettente (e come tale destinato a dividere il pubblico tra consapevolezza filologico-culturale e rosiconeria da videomakers frustrati) era già evidente nel suo debutto [“The Witch”, 2015], capace di donare nuova linfa a tematiche (la stregoneria) cinematizzate ben oltre lo stantio. Merito probabilmente anche della sua formazione drammaturgica all’interno del fermento sperimentale della ‘Grande Mela’ (o ‘Grande Melo’ se vogliamo rispettare l’originale associazione di Edward S. Martin), ma ben consapevole del suo retaggio culturale (è nativo del New Hapshire) di oriundo di quella che storicamente parlando è stata tra le prime colone britanniche nordamericane a rivendicare la propria indipendenza.

E come spesso accade, il passato intinge il presente (evito la metafora della sullivaniana bustina da thè) e nell’opera del regista è presente nuovamente sia l’ambientazione astrattizzata del New England che la catarsi emancipativa del protagonista più giovane [Robert Pattinson nell’ambiguo ruolo di Thomas Howard/Ephraim Winslow, con un passato – brrrr – Twilightiano, ma fortunatamente anche partecipazioni più gratificanti al cospetto dei maestri Cronenberg, Herzog o Nolan].

L’incipit come accennato è un tripudio di nostalgica bellezza, a partire dall’aspect ratio 1,19:1 [per la nuova leva, visto che è trascorso quasi un secolo, qualcosa che appartiene a una parentesi dell’Eldorado trentacinquemillemetriano del muto] e come film muto si potrebbe configurare visto che per quasi 8 minuti – fatta eccezione per uno “shit!” dovuto a una capata in una trave – non sono presenti dialoghi.

E poi la fotografia [anche per questa seconda pellicola Jarin Blaschke]…un bianco e nero fortemente debitore del “Vargtimmen” bergmaniano, coadiuvato da lenti e filtri recuperati da vecchi magazzini degli anni ’30 che ci consegnano immagini estremamente contrastate e pittorici controluce; complice la forte illuminazione necessaria alla bassa sensibilità della pellicola usata.

Il rapporto scelto evidenzia (ma condiziona) un forte rigorismo geometrico e qualsiasi simmetria assume un valore quasi sacrale per il regista. Tutto è scrupolosamente e magnificamente composto, vitruvianamente bilanciato in alcuni momenti, agorafobicamente predisposto in altri che sembrano aver ben chiara la tipica disposizione delle figure umane tanto amate da Friedrich (es. i plumbei 3/4 di cielo che gravano sulle figure umane), così come le wellsiane riprese dal basso che sommate all’illuminazione (quasi tutta artificiale per i suddetti motivi) donano una suggestiva aura espressionista al girato.

E a tal proposito sicuramente la teatralità di un Murnau o per certi versi Dreyer riconsegna alla memoria volti umani pervasi di carica emotiva, corroborata da un linguaggio aulico che trova il suo apice nell’anatema dello scorbutico e scoreggione William Dafoe, indignato per il mancato apprezzamento della propria cucina a base di crostacei. Ma con tali opulente premesse non ci si stupisca di trovare altro, dalla soffocante meccanica degli ingranaggi di langhiana memoria alla feralità ossessiva dei gabbiani che strizzano l’occhio a Hitchcock.

Uccelli con il quale il protagonista ha un rapporto conflittuale e innescheranno un infausto epilogo. E non mancano all’appello i riferimenti a Lynch nella sovrastruttura onirica e allucinatoria (vogliamo parlare dell’enorme vulva della sirena? Nessuna aveva mai usato tanto visivamente nei meandri della censura).

E non finisce qui. Dispiace quasi ricordare ogni singolo dettaglio, quasi temessi di disinnescarne il potenziale visionario. Potenziale che tra paranoia indotta dall’isolamento (e timore d’abbandono) e abuso di sostanze alcoliche (nell’ultima fase di micidiale fattura) è la base di questo thriller dall’inquietante suggestione orrorifica, con un climax di grottesca follia dove ciascuno dei protagonisti sembra voler accusare l’altro della precipitazione degli eventi naturali e sovrannaturali.

Il contributo sonoro di Mark Korven [già collaboratore nel precedente film], di nuovo strings-oriented si fa più organico e a partire dalle iniziali percussioni sincronizzate con la prora della nave che fende le onde ci si sposta verso un sound design [Damien Volpe] a metà tra estremizzazione minimalistica di modern classical e dark ambient inframezzato dall’incalzante incedere di una quasi nefasta sirena diegetica (a livello audio, ma effettivamente ripensandoci è plausibile il parallelismo con la ricorrente figura mitologica) che contribuisce ad accentuare la componente ansiogena di alcuni momenti.

Un’ultima riflessione me la induce una notizia trovata in rete anni fa riguardante una scena mai girata da Eggers, da inserire alla fine della masturbazione di Pattinson nel magazzino (in pratica qualcosa che riguardava il suo fallo in tensione in quanto rimasto inappagato); idea che fu ovviamente sconsigliata dalla produzione, onde evitarsi il classico “NC-17”. Considerando quindi alcuni lapalissiani dettagli scenografici (il grosso faro eretto in uno spumeggiante mare) e comportamentali (l’attitudine master di Dafoe verso il novizio-slave Pattinson con ribaltamento finale dei ruoli nel gioco della vita), il misterioso compagno-collega biondo platino ucciso dopo chissà quale screzio, ambigui tentacoli che scorrono e penetrano ogni tanto e tutte le circostanze imputabili al suddetto lungo periodo di isolamento e perdita di inibizione per intossicazione alcolica…non penso di risultare malizioso o inopportuno se in questo film ravviso (in modo auspico sensato, non come con il caso “Babadook”) anche un adeguato sottotesto gay-friendly. E qualora qualcosa m’inducesse a fare un passo indietro, non posso far a meno di pensare all’ennesima citazione: l’ “Hypnosis” del pittore-scultore tedesco Sascha Schneider, seminale autore e promulgatore di un’estetica omoerotica a cavallo del XX secolo. Altro tocco di genio di Eggers, inserito in modo inatteso e con tutta la valenza semantica e metaforica riscontrabile nell’illustrazione.

Naturalmente tutto questo citazionistmo – ho tralasciato l’ Edward Hopper iniziale, abbastanza palese – rischia di distrarre lo spettatore più (nerdisticamente come il sottoscritto) appassionato della Settima Arte (e non solo). Questo non preclude che il film di per sé – pur vivendo quasi di una straordinaria energia propria che trascende lo stesso contenuto nella sublimazione della forma – rappresenti un’autentica catabasi di due individui che fuggendo dal proprio scomodo passato cercano cannibalisticamente un riscatto sociale (una società assolutamente idealizzata, lontana miglia e separata da uno sconvolgente mare tempestoso) nella propria utilità produttiva e remunerata e l’agognata conquista della luce del faro, entità esotericamente femminilizzata.

Di fatto un’accecante lampada Fresnel [N.B. tuttora utilizzata sul set per la sua potenza e morbidezza] traduce il giovane – dopo una sequenza finale, notevole anche per il modo in cui è stata trattata la sua voce – verso un destino di nuovo Prometeo, le cui interiora vengono divorate su una scogliera dai rapaci uccelli marini; immagine che stavolta rimanda iconograficamente al pittore simbolista belga Jean Delville. Il cinema crea, il cinema uccide. Chapeau.

Una nota: il film è ispirato a un racconto incompiuto [“Il faro”, appunto, tra parentesi grosso sforzo ricostruttivo a livello scenografico] di Edgar Allan Poe. Autore che poi ritorna a livello di citazione anche nella “viva sepoltura” di Dafoe, umiliato nell’animo, prostrato nel corpo, depredato nei suoi bisogni metafisici.

Il film è uscito in Italia nel 2020 per la Universal e distribuito dalla Warner Bros sia in DVD che BD.
L’edizione limitata combo (blu ray + dvd con packaging slipcase + cartoline) dello stesso anno è invece fuori catalogo.
Blu ray da me visionato: classico amaray blu, con copertina a stampa monofacciale.  Codice EAN: 5053083223243

A cura di Luigi Maria Mennella © 2022.


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