The Green Inferno

di Eli Roth (2013)

durata: 90’/103′
produzione: USA
cast: Lorenza Izzo, Ariel Levy, Aaron Burns, Sky Ferreira, Nicolas Martinez, Antonieta Pari, Daryl Sabara, etc.
sceneggiatura: Eli Roth, Guglielmo Almoedo
fotografia: Antonio Quercia
musica: Manuel Riveiro

Sincero, ma cedevole omaggio di un regista appassionato di horror a un settore cardine della nostra trascorsa produzione di genere: il cannibal movie. E a scanso di equivoci tra i titoli di coda vengono addirittura citati in ordine di uscita i capisaldi della filmografia, partendo ovviamente dal lenziano “Il paese del sesso selvaggio”. Ma – c’è un enorme “MA” – tolta l’ambientazione (una strepitosa Amazzonia immortalata nel pieno della sua splendida luce naturale e forse anche per questo rischiosa arma a doppio taglio nella definizione di un ‘atmosfera’ asfittica) e qualche edulcorata citazione – tutto è enormemente distante dalle certo discutibili, ma non sradicabili prerogative del filone cinematografico. Citazioni tra l’altro quasi ermetiche se non si dispone di buona memoria (tarantole, peni o maialini che restano incolumi, gente impalata, ma in modo quasi asettico, teschi umani senza vermi, e via dicendo). Perfino l’unica scena esplicita di macellazione umana [di Jonah, lo sfortunato pacioccone del gruppo interpretato da Aaron Burns] sembra un episodio chiuso e fine a se stesso, totalmente incapace di creare come il resto climax emotivi. Per intendersi siamo anni luce dallo squartamento nel “Magnificat” di Avati (pellicola di tutt’altra collocazione, ma non meno feroce) che ai tempi mi tolse il sonno; quasi un tentativo di percorrere la strada indicata da Dedodato (a cui è dedicato il film e che è stato voluto sul red carpet dal regista), ma gettando poi la spugna. E a tal proposito, in contingenze dove il cruelty free ha revisionisticamente portato a un restauro 4K di “Cannibal Holocaust” eliminando le scene di uccisioni reali di animali – infami, sensazionalistiche, comunque le si voglia intendere, ma storicamente circostanziate – Roth non prova neanche a commissionare qualcosa di simile in CGI; magari con maggiore cura di quella infusa nella scena delle formiche giganti…. Ogni forma di violenza misogina viene di contrappasso bilanciata con un comando tribale matriarcale [Antonieta Pari] o la sensibilizzazione verso l’infibulazione e la pressoché totale assenza di nudi. Con un piccolo angolo perfino per una delicata parentesi di sentimento saffico si può serenamente asserire che il regista abbia trattato la figura femminile con i guanti. Qualsiasi rimando da bieco razzismo colonialista al ‘comportamento amorale di crudeli popolazioni non civilizzate’ viene infine ripulito dall’atteggiamento negazionista (stavolta si cita “Cannibal Ferox”) della protagonista Justine [Lorenza Izzo] nella testimonianza/dichiarazione finale. Per parziale gratitudine verso il caritatevole ragazzino che le ha consentito la fuga, certo, ma anche quasi con il sottotesto di aver profanato una cultura infinitamente distante oltre il chilometraggio. Tutto molto lodevole, ma non s’era parlato di omaggio? Non pago, Roth sostituisce il found footage con la più attuale diretta streaming, i reporter senza scrupoli alla ricerca dello scoop tout court (al punto da simularlo) sono rimpiazzati da pacifici eco-attivisti, il trucco degli indigeni rasenta il glamour mentre la fotografia cristallina fa rimpiangere la sporcizia costruita ad arte del predecessore, il contrasto tra melodie dolci ed efferatezza (si pensi al classico binomio ossimorico Ortolani-Deodato) viene modernizzato con scialbi string pads o anonime schitarrate post-metal, si tenta qualche cinico espediente per stemperare la già flebile tensione [la ragazza che se la fa addosso tra le risate dei bambini, il leader degli attivisti / Ariel Levy che si masturba per scaricare lo stress o il cadavere ripieno di marijuana che prima inebria la tribù e poi fa scattare la fame chimica…] …e si arriva alla fine dei giochi per qualcosa che sinceramente non ha motivo di esistere in questa forma patinata e snaturata e che verte verso una totale scelta di non assunzione di responsabilità. MA (nuovamente “MA”)…non si può citare il marcio senza sporcarsi le mani(che) pur di preservare il politically correct.

A cura di Luigi Maria Mennella © 2023.


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