The Gentlemen

di Guy Ritchie (2019)

Adoro i registi che pur non aggiungendo niente a quanto fatto in precedenza, riescono a creare film ugualmente godibili, scevri dall’incessante forzatura del nuovo. Un po’ come le calde e imperfette pantofole di casa.
E adoro i film che seppur metaforicamente parlano di film.

sceneggiatura: Guy Ritchie
durata: 113′
produzione: UK
cast: Matthew McCounaughy, Hugh Grant, Charlie Hunnam, Colin Farrell, Charlie Hunnam, Michelle Dockery, Henry Golding, Eddie Marsan, etc
fotografia: Alan Stewart
musica: Christopher Benstead

Rewind… L’ex marito di Madonna (a cui dobbiamo il decisamente dimenticabile remake di “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto”) e regista di note pellicole analoghe a questa in oggeto come “Lock & Stock – Pazzi scatenati”, “Snatch” (o lo stesso “Operazione U.N.C.L.E.” che verrà autocitato su un poster a fine film) ci propone un prodotto girato ad arte dove stereotipi linguistici/culturali, cliché visivi che ammiccano al pulp e soluzioni narrative del millennio scorso lasciano comunque lo spettatore contemporaneo incollato allo schermo fino alla fine. Il motivo, forse personale, forse condivisibile, probabilmente è da cercare nel fatto che – a proposito di rewind – da un lato il film sembra cominciare dalla fine (ma gli avvenimenti non si svolgeranno esattamente come sembra) e vien voglia di capire cosa sia accaduto, dall’altro la trama ingarbugliata, ma non metafisica stimola nel suo non essere eccessivamente farraginosa il classico desiderio di unire i puntini. E alla fine tutto torna come un puzzle di cui avevamo già l’immagine finale stampata sulla scatola.

Stimolo in buona parte dovuto anche alla policroma e dettagliata caratterizzazione e interpretazione dei personaggi. Tra questi spicca come al solito – faccio fatica a ricordare un film deludente con la sua presenza, sarò sincero – l’istrionico McCounaughy, nel ruolo di Mickey: astuto e spietato trafficante e uomo d’onore, ma di ‘sani principi’ (la sua erba fa stare meglio e presto sarà legalizzata, ma non uccide) che ha fondato un impero partendo dal nulla come il protagonista di “Blow” di Ted Demme, ma a differenza di questo superando le possibilità dell’intraprendenza e dovendosi macchiare le mani di sangue. A seguire un lascivo investigatore privato, Fletcher [Hugh Grant] che si alterna tra raziocinio compiaciuto e viscerali (molto viscerali, ma qui si torna al discorso iniziale) debolezze umane; o il pastorale Colin Farrell nel ruolo di un “Coach” (e molto simbolicamente quello resterà il suo nome) che toglie i ragazzi dalla strada, ma quando serve (ad es. per fare ammenda e rinfrancare il proprio, il loro onore) ce li rispedisce; seppur a tempo limitato. Charlie Hunnam, che impersona con calibrato snobismo Raymond Smith, il fedele braccio destro di Mickey fa da collante per la storia e chiave di (s)volta all’enigma iniziale della scena del pub (evito di spoilerare).

In tutto questo si inseriscono personaggi di seconda e terza fila che svolgono perfettamente il loro dovere sartoriale nella sceneggiatura, siano essi ambiziosi e irrispettosi rampolli della mala cinese [Henry Golding alias Occhio Asciutto] o semplici vittime, come il tossico che vola giù da una finestra, ma scopriremo esser figlio di un vendicativo ex agente del KGB.
O infine il rancoroso direttore di tabloid Big Dave [Eddie Marsan], frutto di un abile e impietoso casting, i cui tratti somatici suini saranno sfruttati alla fine per render ancor più credibile l’oggetto del suo ricatto per l’accoppiamento filmato con un maiale, in preda a chissà quale droga eccitante. Neanche Spasojević in “A Serbian Film” aveva ipotizzato tanto.

Non mancano le citazioni tarantiniane (es. camera in basso e Coach che presenta qualcuno che ha trasportato nel cofano della macchina) o shakesperiane / radfordiane (es. la postilla della libbra di carne per lo smascherato avido miliardario che aveva provato a raggirare Mickey).
Donano invece freschezza all’impianto visivo gli inserti di montaggio da YouTuber con le scene di “fight porn” dei ragazzi del Coach, sorrette da un commento sonoro rap davvero ben coreografato ed eseguito vocalmente.

Parlavo inizialmente di riferimenti cinematografici… Ho trovato infatti efficace l’idea dell’indagine privata che Fletcher cerca di vendere come sceneggiatura inizialmente a Raymond Smith e poi alla stessa Miramax, che nella realtà ha prodotto questo film. E i meccanismi dello script sono quelli utilizzati dall’investigatore per presentare le persone chiamate in causa e districare gli eventi, con tanto di divagazioni di natura estetica (la sua predilezione per il 35mm) o formali (lui trova noiosa “La conversazione” di F. Ford Coppola).

Complessivamente un film corale, con un montaggio piacevolmente frenetico, un commento musicale sempre azzeccato e sorretto più dai personaggi ben delineati, pur con i propri limiti di stereotipizzazione (da cui non si sottrae neanche il personaggio della moglie di Mickey [Michelle Dockery] – donna d’affari e musa che si concede solo fuori orario di lavoro) che da una trama immediata. Intreccio narrativo che procede comunque come un insieme di variopinti vetrini trasparenti, prima disallineati e infine perfettamente sovrapposti nella messa a fuoco di una graziosa immagine risolutiva.

Neanche due ore, sembra di averne viste quattro, è pesato quanto vederne una e resta un languorino per un’altra mezza…
A tal proposito, il film l’ho visto direttamente su Prime Video, ma ovviamente è disponibile in triplice formato (DVD/BD standard e 4K) dall’anno scorso sulla stessa piattaforma Amazon.

LINK per visionarlo su Prime Video

A cura di Luigi Maria Mennella © 2022.


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