Sono innocente!

di Fritz Lang (1937)

L’ineluttabilità di una ferita chiamata “destino”, aperta dalla fame, martoriata dalla legge, infettata dall’ottusità della massa è quella che impedisce il riscatto umano del protagonista, caper emissarius in una società dove la redenzione assume le fattezze di un miraggio tanto è forte l’ipocrita indifferenza del prossimo.

titolo originale: “You only live once”
durata: 87’
produzione: USA
cast: Sylvia Sidney, Henry Fonda, Barton MacLane, William Gargan, John Wray
sceneggiatura: C.Graham Baker, Gene Towne
fotografia: Leon Shamroy
musica: Alfred Newman

Capro espiatorio che fa della consapevolezza la sua forza morale, ma anche la sua debolezza etica, ulteriormente affievolita dalla totale mancanza di empatia sia di chi è più fortunato e non conosce il disagio, sia di chi è chiamato a garantire una giustizia che nello scorrere degli eventi filmici vedremo confermarsi come l’ennesima, vacua speculazione demagogica degli organismi deputati a tale delicato compito.
Lang – emigrante tedesco memore della pessima esperienza in patria con il degrado socialista del nascente partito Nazista – sembra quasi voler ricordare agli americani quante certe dinamiche vadano ben oltre i confini geografici.
E lo fa senza mezze misure, con la proverbiale insofferenza verso i regimi che lo portarono prima a fuggire di notte da un Goebbels che voleva farne il vate della cinematografia nazista e poi a crearsi antipatia (tollerate solo in ragione del suo indiscusso genio) nel vertice hollywoodiano.
Pur conservando il plumbeo senso di oppressione esercitato dalla società sull’individuo, predestinato a una sorte infausta e beffardamente illusoria, accantona il vigore superomistico / nietschziano delle precedenti caratterizzazioni attoriali per dipingere la figura di un uomo che ha sì il coraggio di esser buono, ma è fragile e impotente di fronte agli eventi e alla forza tribale dei suoi simili. Un destino ideato possibilisticamente da un dio, ma sicuramente scritto, nero (molto nero) su bianco dall’uomo.

Ed ecco che il protagonista, Eddie Taylor [Henry Fonda alla prova con la sua prima interpretazione importante] vive la premonizione della propria sorte fin dall’inizio, tanto nell’onestà intellettuale della comprensione di quelle variabili che potrebbero impedirgli di “rigare diritto” [es. quando asserisce: “(…)se me lo permetteranno”, nel colloquio con il direttore del carcere , prima del rilascio], tanto nell’ascolto dei suoi ex compagni di sventura che un po’ per esperienza un po’ forse per invidia gli ricordano ‘che sarà sempre uno di loro’. Il minaccioso “ti verrò a trovare” del compagno di cella ha poi un ruolo chiave nello sviluppo narrativo, ma lasciamolo per dopo.
Sullo sfondo intanto la concettualizzazione di un’indole propensiva all’illegalità nell’uomo è ribadita da un detenuto che approfitta di un attimo di distrazione del compagno per rubargli alcune pedine durante una pacifica, quotidiana partita a dama…
Ma, si noti bene, non in un’ottica lombrosiana di condanna, quanto nella presa di coscienza di chi sa che alla prima occasione chiunque, a prescindere dal ruolo sociale è pronto a derubare il prossimo. Avremo conferma di questo tanto nell’incipit del film dove un fruttivendolo vuole (ingenuamente) far causa a un poliziotto che ogni giorno gli ruba tre mele, quanto nella fase finale quando durante la fuga dei protagonisti, i benzinai provvisoriamente sequestrati durante il rifornimento denunceranno un falso furto per sottrarre impunemente il contenuto del registratore di cassa incolpando Eddie e Jo.

La segnalazione notturna alla polizia di Jo, ricercata con il marito e con una cospicua taglia sulla testa, che stronca qualsiasi proposito di esito positivo per la fuga degli innamorati nasce anch’essa dall’avidità umana, probabilmente dal bisogno economico, ma sicuramente dalla suddetta apatia verso quelli che la società reputa due criminali solo perché è la stampa a dirlo. Memorabile la scena in cui il capo redattore aspetta una telefonata per decidere quale delle tre prime pagine già pronte dovrà mandare in stampa con l’edizione straordinaria / altro richiamo alla corruzione dei media nell’ambito dell’ascesa nazionalsocialista.

E a tal proposito aprendo una brevissima parentesi è interessante notare il ruolo preponderante, quasi ossessivo del telefono (che pur funge da surrogato del bisogno di contatto fisico dei due innamorati) nel sottolineare la distanza umana – nuovamente, empatica prima ancora che fisica – di quanti con il proprio operato attuano scelte determinanti nella sorte del protagonista: parlavamo della sentenza e della relativa prima pagina, ma anche la telefonata dei benzinai, quella della persona che vuole riscuotere la taglia e come accennerò dopo quella del licenziamento.
Tornando indietro, non è quindi casuale l’amarezza con cui Eddie affronta il giorno tanto atteso della scarcerazione nello stupore di chi gli si aspetterebbe maggiore entusiasmo; e solo la contagiosa gioia e il pericoloso ottimismo della sua compagna Joan, chiamata semplicemente “Jo” [Sylvia Sidney, presente in tutti e tre i film di questa “Trilogia del sociale” di cui “You only live once” costituisce l’episodio centrale] riescono a fargli tornare per un attimo l’ancor più rischiosa speranza.

Ma le docce fredde non tarderanno ad arrivare, a partire dalla dolcezza della luna di miele spezzata dal proprietario dell’albergo, aspirante detective che li butta fuori in piena notte (in realtà la codardia porta la moglie a farlo al posto suo) una volta venuto a sapere del suo passato carcerario. Così come nell’attimo in cui il sogno di una vita normale, ricamata attorno al progetto di una casa insieme, viene improvvisamente ed esageratamente sfaldato da un licenziamento in tronco dal nuovo impiego a causa dell’accumulo un eccessivo ritardo sul posto di lavoro.
N.B. impiego trovato solo grazie all’intercessione di un amico di Jo, l’avvocato e suo capo Stefano [Barton MacLane], perché difficilmente un ex-galeotto sarebbe stato assunto.
Ritardo dovuto in questo caso alla ricerca/visita del nuovo appartamento dopo il matrimonio e che in una società empatica troverebbe oltre che comprensione amichevole e romantica complicità, ma che in quella che Lang ci sbatte in faccia è solo un vacuo falò di entusiasmo da spegnere con una secchiata di brusco cinismo: l’indifferenza del datore di lavoro, simbolicamente tediato dalla disperata insistenza di Eddie e interessato solo ai preparativi di una serata tra amici / “pari” costituiranno il punto di saturazione che porterà il protagonista a tradire il suo giuramento iniziale: un cazzotto all’uomo e ha inizio la sua discesa nell’abisso della realtà. I debiti immediati per la caparra del nuovo appartamento e delle bollette in arrivo faranno il resto.

In tale contesto s’inserisce l’ingannevole MacGuffin del cappello recante le iniziali “E.T.” (che riconduce quindi al pregiudicato “Eddie Taylor”) dimenticato durante una sanguinosa rapina di un camioncino trasporta valori fuori da una banca, dove l’utilizzo di gas velenoso ucciderà diversi poliziotti e passanti.

Dovremo attendere la parte finale del film per comprendere quanto il giudizio della massa che reputa colpevole Eddie semplicemente perché ex-galeotto e vuole la sua morte, quanto quello di noi spettatori che crediamo di dover prender atto di un’azione sconsiderata indotta dalla disperazione, magari perché abbiamo visto Eddie osservare per un attimo una pistola tenuta sotto il materasso, siano in realtà lo specchio della nostra stessa ipocritamente assuefatta e superficiale capacità di giudicare il prossimo.

E d’altronde di chi sia quella pistola (sua oppure dell’ex compagno di cella che alla fine è davvero andato a trovarlo e si è steso sul suo letto) ha poca importanza: il modo in cui la guarda trasmette l’imminente scelta dell’unica soluzione possibile.

Determinante l’atteggiamento ingenuo di Jo, ottusamente fiduciosa nel sogno americano e nel reputare di scarsa importanza il passato in un futuro che può esser roseo se basato sull’amore presente. Talmente ingenuo da non accogliere sia il sentore di Eddie, appesantito da constatazioni premonitrici né l’evidenza dei fatti stessi. Talmente cieco da non voler – al di là della premura verso il compagno – accettare le proprie stesse ferite mortali infertele nella fuga finale, perché in fondo mancano pochi metri al confine/libertà. Fortunatamente non anche talmente ottuso da comprendere quando è il momento di lasciare il neonato alla sorella / Jean Dixon prima di scappare (un infante crivellato dai colpi sarebbe stato davvero troppo per il cinema di allora).

Al pragmatismo laico di Eddie si contrappone l’interpretazione del suo parroco carcerario, padre Dolan [William Gargan], che l’ennesimo destino beffardo trasformerà da messaggero di salvezza (vuole mostrargli il comunicato di grazia) in causa della sua condanna finale (non creduto, viene da lui colpito): nel tentativo di ottenere per lui la grazia mentre è nel braccio della morte (grazia che arriva in tempo, prima che Jo si suicidi con acqua avvelenata) fantastica in merito a un’innata natura “principesca” dell’essere umano in nuce, guastata solo dagli eventi sfortunati e persone sbagliate. Eppure la sostanza di questa illusoria interpretazione è pari a quella del fascio di luce finale che Eddie vede nel bosco, dopo esser stato colpito alle spalle dalle guardie di confine. Un finale che lascia adito a una doppia interpretazione: Eddie è già morto e si comprende che quella luce non appartiene a questo mondo oppure Eddie in preda ad allucinazioni (una voce fuori campo lo chiama: “Eddie! Eddie! You’re free… the gates are open!”) dovute alla morte incipiente assiste a un transfert della propria speranza. Ma resta da constatare che quel fascio di luce s’interrompe un secondo prima della scritta “The End”, mentre la macchina da presa mostra il medesimo spazio boschivo abbandonato all’ombra.

E rimanendo in tema di oscurità, va ricordato che quello che il maestro gira è anche uno dei primi noir del cinema, per quanto road movie nella parte finale con tutti i limiti del periodo costituito dal ‘trasparente’, ma anche simpatiche trovate come la messa in piega di Joe distrutta dal finestrino spaccato. Noir che raccoglie gli elementi portanti del genere (maldestra solo la parte di sceneggiatura ispirata al clamore mediatico di tre anni prima riguardante le vicende di Bonnie & Clyde) con un taglio registico molto crudo che ha portato la censura a rimuovere molti minuti di girato (e ulteriori una volta giunto in Italia).

Maniacale come sempre l’attenzione al dettaglio e significative le angolazioni della macchina da presa capace di produrre simbolici giochi d’ombre e assecondare la ricerca di soluzioni narrative peculiari (si pensi al dialogo notturno durante il viaggio di nozze, raccontato attraverso il riflesso su uno stagno, distorto e poi ricomposto dopo il tuffo di una rana). Intelligente l’uso dell’acustica e presa diretta, come durante il colloquio carcerario di Eddie e Jo attraverso un pannello divisorio forato; ma stiamo d’altronde parlando di chi tra i primi [il secondo, escludendo “Il cantante di Jazz” di Crosland”] con “M – Il mostro di Düsseldorf” (1931), già aveva gestito l’ingresso del sonoro nel cinema e intuito il potenziale drammaturgico di questa invenzione. Semplicemente stupenda la fotografia di Shamroy che trova il suo apice espressivo nel modo in cui la luce scolpisce la cella di Eddie in procinto di consumare l’ultimo pasto, poi finto suicidio, proiettando suggestivi fasci di ombra dall’altissimo valore simbolico e psicologico; eredità estetica espressionista questa portata in dono con questa seconda prova su suolo americano che conferisce al girato – insieme alle figure notturne immerse in un paesaggio nebbioso – un fascino extra-sensoriale e futuro paradigma del genere.

Il film è uscito in Italia a partire dal 2010 per la Eagle Pictures (collana “I film della vita”) sia in DVD che BD. Inizialmente distribuito dalla medesima casa produttrice (edizione con rifiniture rosse/fuori catalogo) e poi dalla Terminal Video (edizione con rifiniture blu). A questa seconda mandata appartiene il blu ray da me visionato (2011, codice EAN: 8031179929894/qualche copia ancora reperibile): ben fatto slipcase con scritte a rilievo, contenente amaray con copertina a stampa bifacciale e allegato booklet di 16 pagine. Nel 2017 è uscita la ristampa (DVD e BD) prodotta dalla Studio Canal e distribuito dalla Eagle Pictures nella cromaticamente micidiale (mortale per la stragrande maggioranza degli artwork) serie “Indimenticabili” in amaray verde.

A cura di Luigi Maria Mennella © 2022.


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