Smile

di Parker Finn (2022)

durata: 115’
produzione: USA
cast: Sosie Bacon, Jessie Usher, Kyle Gallner, Kall Penn, Gillian Zinser, Robin Weigert, etc
sceneggiatura: Parker Finn
fotografia: Charlie Sarroff
musica: Cristobal Tapia de Veer

Due ore di durata possono essere troppe se non si è previsto un tessuto narrativo che stia in piedi senza ridondanti riempitivi e soprattutto se per il finale non ci si è riservati un’idea veramente brillante. Nella pellicola di Finn purtroppo questo non avviene. E dispiace, perché l’inizio di questo horror a metà tra soprannaturale e slasher, ma con una forte componente psicologica – ribadita anche tra locations e profilo dei personaggi – è interessante. E lo è anche l’uso personale della camera che non disdegna prospettive ‘altre’, quasi a voler portare lo spettatore a osservare la realtà oltre l’apparenza, assecondando lo sguardo sbilenco di chi soffre nella psicosi; partendo magari da un’angolazione obliqua per ritrovarsi poi in un totale capovolgimento dell’inquadratura, metafora di quella realtà. Ed è di nuovo interessante l’uso non banale, fantasiosamente decontestualizzante o decontestualizzato dei jumpscares. Discorso analogo per l’ottimo commento sonoro di Tapia de Veer (già fattosi notare per il lavoro nella serie inglese “Utopia): intelligentemente sperimentale, destrutturato, tra dark ambient, glitch ed alea, quasi più inquietante della trama stessa nel suo raggirare gli stilemi sonori del ‘sinistro’. Perfino l’interpretazione nevrotica, ma non affettata della figlia di Kevin Bacon è convincente. E gli effetti splatter nella media ottengono il loro scopo. Poi però qualcosa si rompe. Si intravedono le crepe a partire dall’ennesima allucinazione della protagonista, stavolta però con una psichiatra [Robin Weigert] che sembra richiamare l’Alien sbavante che risparmia Ripley perché incinta (ma le citazioni sono tante, in primis l’immaginario di Koji Suzuki e relativi adattamenti cinematografici). Per finire con una sorta di oblungo Marilyn Manson che un po’ per quello che ho sempre lovercraftianamente pensato in merito all’orrore – che non andrebbe mai completamente mostrato per non essere depotenziato – un po’ perché di spaventoso a ben vedere c’è poco (diciamo che il suddetto ricorda drammaticamente il compianto Richard Benson) ed ecco che da questa constatazione a un epilogo prevedibile il passo è breve. Prevedibile quasi quanto una canzone sui closing credits che per contrasto dovrebbe accentuare l’esser beffardo del fato, ovvero la “Lollipop” intonata dalle Chordettes …e il pensiero (citazione?) va subito all’altra loro hit, “Mr.Sandman” usata nell’ “Halloween” di Carpenter. Potenziale sprecato, ma assolutamente rimediabile se coadiuvato da una migliore sceneggiatura: questa parrebbe esser stata riciclata dal precedente short (“Laura hasn’t slept”), ma non sarebbe certo il primo esempio (uno a caso: il “Lights out” di Sandberg) in cui il soggetto di un corto rende meglio nei confini espressivi della sua durata originaria. Attendo fiducioso il secondo lungometraggio, auspicabilmente basato su un lavoro di scrittura nuovo e specifico e che funga da miglior raccordo narrativo tra i vari momenti che se banalmente fossero presi singolarmente funzionerebbero perfettamente; godendo perfino del potenziale di restare memorabili (es. i momenti in cui suo malgrado la protagonista traumatizza il nipotino…).

A cura di Luigi Maria Mennella © 2022.


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