Passengers

di Morten Tyldum (2016)

durata: 116
produzione: USA
cast: Jennifer Lawrence, Chris Pratt, Michael Sheen, Laurence Fishburne
sceneggiatura: Jon Spaihts
fotografia: Rodrigo Prieto
musica: Thomas Newman

Difficile realizzare un film di fantascienza che non paghi più o meno indirettamente il proprio tributo a Kubrick. Che poi questa considerazione venga utilizzata da una buona parte della critica per sottostimare un film quando invece il suddetto, per primo non ha mai avuto un riconoscimento personale ufficiale (parlo di Oscar come miglior film o regia) fa sorridere, ma proseguiamo…
I riferimenti al classico “2001: Odissea nello spazio” (dal computer demiurgo, ma fallace che controlla tutto alla versione androide del barista Lloyd, palese omaggio) così come il suo omonimo successivo, “2002: La seconda odissea”, esordio di Douglas Trumbull (l’astronave-serra) sono spesso evidenti. Ma quello che prevale nello script è l’enorme senso di solitudine cosmica a cui un errore del sistema condanna il protagonista maschile [Chris Pratt], la paura di essa, la disperazione e abbrutimento che a poco a poco – la metafora dell’isola deserta torna in più punti – lo trasforma in una sorta di Chuck Noland (cfr. “Cast Away” di Zemeckis) interstellare.
Paura che trova pace solo nell’appagamento del proprio egoismo esistenziale e fragilità umana. E qui entra in gioco l’apparentemente algida Jennifer Lawrence, giornalista di altra classe sociale, sorta di naufraga spaziale in un più fortunato Titanic, che per ovvie dinamiche antropologico-esistenziali finisce per legarsi indissolubilmente, romanticamente (con tutto lo Sturm und Drang del caso) all’unica figura maschile della storia. Fatta eccezione ovviamente per la breve apparizione dell’ex-Morpheus Laurence Fishburne, che funge da mediatore familiare…
Ho riscontrato un riferimento all’attività consumistica (nel nostro caso dilatata iperbolicamente fino al completamento del proprio ciclo vitale) in un’astronave in cui non manca praticamente niente, da svolgere in attesa della fine del viaggio e che sembra attingere al poema epico degli anni 50 dello svedese Harry Martinson (“Aniara”, poi -guarda caso- trasposto in film due anni dopo circa).
Comparto effettistico di qualità e soprattutto bellissima la scenografia (soprattutto se si tiene conto che non è digitale) e le suggestive rappresentazioni ambientali delle galassie.
Ottima la colonna sonora di Thomas Newman, molto synth-oriented, dalle azzeccate venature Kosmische Musik, raramente fragorosa (tant’è che si amalgama perfettamente con i ritmi e le atmosfere soffuse del film). Peccato che – senza spoilerare – a un certo punto del film qualcuno abbia deciso di disintegrare il delicato e raffinato lavoro di tessitura compositiva inserendo il brano “Levitate” degli Imagine Dragons. Considerando i premi vinti e le vendite stratosferiche dal gruppo alternative immagino sia una bieca mossa commerciale (analogamente al cammeo finale di pochi secondi di Andy Garcia, riportato nel cast principale), che – come dire? – “casca come il cacio sui…gamberoni”. Per fortuna Newman è stato ripristinato nei closing credits, ma l’amaro resta in bocca.

A cura di Luigi Maria Mennella © 2022.


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