Motorrad

di Vicente Amorim (2017)

durata: 91’
produzione: Brasile
cast: Carla Salle, Pablo Sanàbio, Juliana Lohmann, Emilio de Mello, Guillherme Prates
sceneggiatura: Vicente Amorim
fotografia: Gustavo Hadba
musica: Fabiano Krieger, Lucas Marcier

Quando un regista preparato ed esperto viene coinvolto da un produttore biker nel progetto di un film di genere (nello specifico ‘slasher’) il risultato non può che non far alzare il sopracciglio. Da un lato automaticamente si schiereranno quanti alla ricerca di sordide atmosfere resteranno infastiditi da quella che può risultare una veste troppo patinata e metafisica; dall’altro chi ravvisando fin dai primi minuti una spiccata autorialità si domanderà: “perché?”. Ma non per quella sorta di snobismo (sincero o indotta dalla critica) che tiene lontani alcuni registi dall’horror, quasi fosse un genere di seconda categoria, ma per il dubbio di come si riesca ad esprimersi liberamente, assecondando il proprio talento all’interno comunque di rigidi confini prestabiliti che se oltrepassati rendono il prodotto qualcos’altro. Amorim allora opta per l’unica cosa che non può stravolgere un film di genere: la personalità. I ‘macellai’ di turno ci sono, portono a compimento i loro omicidi con una varietà che sicuramente non lascia nessun aficionados di questo tipo di film scontento, MA va oltre il cliché dell’assassino misterioso e mascherato. Quasi volendo mettere in scena i Cavalieri dell’Apocalisse, i quattro motociclisti assassini ossequiosi di un imprescindibile dress code (in total black per l’esattezza) trasmettono fin da subito la sensazione di involucri di qualcosa di oscuro, talmente inesorabile che non temono né di manifestarsi né il numero superiore delle vittime, indefessi e flemmatici come il pistolero-robot di Crichton. E infine anonimi e come accennato metafisici fino alla fine, traditi per la loro componente umana solo dal proprio sangue. Siamo – è il caso di dirlo – a miglia lontani dalle stereotipizzazioni di un “Satan’s Sadists” o classici del bikexploitation, così come (fortunatamente) da tutta l’abusata iconografia satanica resa sempre più becera dal cinema, optando piuttosto per nuove e nuovamente originali simbologie (cfr. il marchio del carburatore da cui tutto è partito e accomuna sia il protagonista principale che l’ultimo dei biker assassini). Partendo da un mutismo assoluto (quasi 15 minuti iniziali), introdotti da un suggestivo tramonto con gli ultimi secondi in ramping, proseguendo per un impianto scenografico che favorisce l’eco dei motori (unica voce dei biker oscuri) e un paesaggismo ai limiti dell’ostile – romantica fascinazione turneriana per le rocce permettendo che a tratti ricordano anche le “Bianche scogliere di Rügen” di Friedrich – il regista dipinge il quadro di un’ambientazione parallela a un mondo su cui nessuno si pone alcuna domanda; né ha tempo di occuparsene. Così come non si indaga sul motivo di questa efferata caccia all’uomo (salvo riflettere sulla violazione del confine di una riserva), arrivando agli ultimi suggestivi secondi dove la Morte in persona sembra invitare con un bacio verso un’autentica catabasi; epilogo che avrebbe (il condizionale è purtroppo dovuto a una sinceramente evitabile chiusura di porta) donato alla pellicola un quid in più. Sonorizzazione non particolarmente entusiasmante: ai frammentari momenti di rock/sludge strumentale preferisco sicuramente gli inserti sound design, per quanto ridondanti. Ottima la fotografia, con una coraggiosa scelta di desaturazione e magistrale il lavoro dei fuochisti nelle frequenti riprese di corsa in moto. Pochissimi ma funzionali gli effetti speciali. Complessivamente un titolo che ha molto da insegnare sul piano formale, aprendo la strada anche a possibili rinnovamenti, ma ha anche tanto da imparare sul piano di un genuino coinvolgimento dello spettatore che più o meno con ammirazione per quanto sopra premesso potrebbe comunque restare con l’impressione di aver assistito a un poco spaventevole esercizio di stile.

A cura di Luigi Maria Mennella © 2022.


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