Dopo un esordio più che promettente (“Hereditary”, 2018), ma che ancora risentiva dei cliché narrativi indotti dalle tematiche affrontate, Ari Aster ci consegna con questo secondo lavoro un’opera drammaticamente matura pronta a delineare nuovi e seminali stilemi di genere sincretico, dove la dualità fa della tensione risolutiva il suo motore inerziale.
titolo originale: “Midsommar” e basta. Decisamente meno forviante…
sceneggiatura: Ari Aster
durata: 148′ (esiste anche una Director’s cut di 172’)
produzione: USA
cast: Florence Pugh, Jack Reynor, William Jackson Harper, Vilhelm Blomgren, Will Poulter, Isabelle Grill, etc
fotografia: Pawel Pogorzelski
musica: The Haxan Cloak
Partendo da un prologo cupo e asfittico come gli attacchi di panico della protagonista Dani [Florence Pugh] in cui germogliano gli ultimi semi di un amore mal nutrito, il film presto si sposterà – attraverso la metafora di un viaggio – verso una dimensione parallela di pacifica solarità (simbolico in tal senso il ribaltamento della camera durante il tragitto in macchina). Dimensione che persisterà – fatta eccezione per un sulfureo stacco onirico a metà film – fino agli ultimi secondi di girato, nonostante l’orrore incontrato.
E sicuramente questo forte contrasto tra il concetto di morte tradizionalmente legato alle tinte scure e soffocanti e un’ambientazione apollinea e ariosa (anche per motivazioni geografiche e stagionali) accresce nello spettatore l’angoscia; vanificando anche l’ultimo baluardo psicologico della speranza di una manifestazione, scoperta, chiarificazione salvifica.
No, in “Midsommar” l’orrore è appunto alla luce del sole, non ha bisogno di celarsi, perché non sottende alla logica comportamentale del peccato, non ha bisogno di stravolgere i meccanismi cautelativi sociali, perché nasce nella costituzione di una nuova/antica società dove quel che accade non solo è normale, ma – ultima stoccata all’istinto di sopravvivenza dei protagonisti – gradito e auspicabile. E a nulla serve opporsi, perché o attraverso l’obnubilamento della coscienza tramite droghe allucinogene o la seduzione della conoscenza (quale meta migliore per due dei nostri protagonisti che devono scrivere una tesi di antropologia?) o della carne, o infine clandestini ‘mezzi forti’ in extremis nessuno può più abbandonare quella dimensione nella quale il proprio destino è già stato predisposto. Neanche in maniera tanto ermetica se si pensa ad es. al telo dipinto steso al sole, che anticipa in pratica tutto quello che accadrà a Christian [Jack Reynor].
E d’altronde che tutta quella pacificità nascondesse un ordine mantenuto su credenze spietate e irrazionali per individui dalla mentalità radicata nella contemporaneità è evidente anche nell’episodio del suicidio ritualistico dei due settanduenni, arrivati “alla fine del proprio ciclo vitale” [cit.] A tal proposito, cammeo per il ruolo dell’anziano che si ‘suicida male’ di Björn Andrésen [meglio noto per l’efebico Tadzio in “Morte a Venezia” di Visconti].
L’elemento orrorifico, nella sua veste più materiale è sapientemente diluito nell’organico visivo copioso di dettagli. Si pensi ad esempio a quello del pene insanguinato di Christian dopo il rituale d’accoppiamento con la ragazza designata, Maja [Isabelle Grill], giacché questa era vergine; o gli elementi pulsanti di vitalità che rimandano sia agli effetti degli allucinogeni che a una vita propria di una natura che respira insieme a noi. E prevale nella sua subterraneità psicologica. Un orrore che trova raffinetezza esplicativa tanto nei momenti propriamente splatter (teste schiacciate, ma incorniciate in una poco tradizionale luce straniante) che in quelli gore [il leggendario supplizio norreno dell’Aquila di sangue a cui è sottoposto Mark / Will Poulter].
Il topos della dualità prosegue nel montaggio alternato del sopra accennato accoppiamento di Christian con Maja e la conseguente sofferenza di Dani venutane a conoscenza. Toni grotteschi nel primo (con tanto di anziana che spinge le natiche del ragazzo per dargli il giusto ritmo) e raffinati nei riferimenti greco-romani di Cori e Praeficae per il secondo; finché l’allineamento sarà completato dal sincrono trovato tra i versi di incitamento del primo e i lamenti empatici del secondo.
E ancora dualità nel rapporto di coppia irrisolto con Dani, passando dall’ambiguità di un amore che sta svanendo e va avanti per compassione a quella di un flirt psicologico – reso con una classica triangolazione di campi e controcampi – con la ragazza che lo ha scelto per riprodursi e che mette in atto le varie tappe seduttive di Magia Rossa, preannunciate dal suddetto telo.
Sarà in questo caso la protagonista principale a spezzare questa dualità malata nella sua scelta finale di sacrificare lui al posto di un membro estratto a caso del villaggio e nel sorriso del suo primo piano si legge il totale compiacimento per aver trovato finalmente una forma rassicurante di equilibrio (anche se con scadenza datata 72 anni…) all’interno di una nuova e solida ‘famiglia’.
Ma la ricorrente dualità che Aster conferisce a queste e altre situazioni è anche sinonimo di simmetria. E in tal senso la meravigliosa fotografia che sembra attingere tanto da Alcott quanto da Powell, densa di tratti allegorici e attimi di luminosità metafisica supporta una scenografia fatta di bilanciamenti geometrici tra gli elementi e partizioni tra un prato perfettamente livellato e un cielo terso verso cui protende – unico verticalismo gotico scenografico – il tempio che sarà dato alle fiamme assieme alle vittime sacrificali alla fine. A esser più attenti (si osservi l’intelaiatura), la porta del sole, attraverso la quale i visitatori/vittime fanno ingresso – è un probabile pendant architettonico e rimando al tempio, quasi a guisa di inizio di un percorso che in esso trova il suo completamento ritualistico.
Gli interni in cui ingerisce l’insistenza di una luce perenne sembrano mecche dove la storia e il destino di un popolo che ripete ciclicamente le proprie tradizioni decorano le pareti. Interni in cui la figura umana assume le proporzioni delle stesse bambole del precedente lavoro che il regista sembra autocitare. Le apparecchiature sono paradossalmente molto curate (raggiungendo la perfezione nel banchetto in onore di Dani, eletta Regina di Maggio) così come le vesti artigianali di un popolo che ha deciso di ripudiare i dettami di un regime urbano e borghese e preferisce pranzare all’aperto celebrando la prosperità e il benessere ‘futharkamente’ richiamata da una disposizione dei tavoli a forma di Oþalan (in caso di problemi di traslitterazione “Othalan”).
Buona anche la colonna sonora firmata con uno pseudonimo dal musicista serbo-inglese Bobby Krlic, interamente strumentale, costituita da ben dosate stratificazioni ambient/drone con richiami classici e incursioni folkloristiche, ma filtrati in un’ottica elettronica.
Concludendo, anche per quanti avvertono la nostalgia di un degno e moderno erede di pellicole come “The Wicker Man” di Robin Hardy (purtroppo mai importato in una nazione come la nostra che vanta una delle più grandi scuole di doppiaggio) un film di catarsi dove ogni elemento ha ragione di essere al di là di ogni nostra possibile cognizione di causa. Ma l’effetto c’è.
Il film è stato distribuito in Italia a partire dall’anno di uscita in molteplici formati (dal DVD al 4K). La versione da me visionata all’interno del blu ray – edito e distribuito dalla Eagle Pictures nel 2019 (codice EAN: 8031179958665) – è quella cinematografica.
Appena avrò modo di visionare l’ampliata Director’s Cut (sul secondo disco, in lingua originale sottotitolata, 20 minuti aggiuntivi) aggiornerò questo articolo.
A cura di Luigi Maria Mennella © 2022.
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