Matrix Resurrections

di Lana Wachowski (2021)

Quasi 20 anni per un risultato a metà tra il superfluo e la frustrazione del possibilismo, ma perfettamente capace di guastarmi un buon sapore maturato nel tempo.

titolo originale: “The Matrix Resurrections”
durata: 148′
produzione: USA
sceneggiatura: Lana Wachowski, David Mitchell, Aleksandar Hemon
cast: Keanu Reeves, Carrie-Anne Moss, Yahya Abdul-Mateen II, Jonathan Groff, Jada Pinkett Smith, etc
fotografia: John Toll, Daniele Massaccesi
musica: Johnny Klimek, Tom Tykwer

Confesso di non avere assolutamente la mentalità da fan ed è forse questo che mi impedisce sia di carpire la stretta necessità di questo tardivo seguito assimilabile al concetto di ‘ramen scaldato’, sia di avere quel tipo di indulgenza intellettuale che ravvisa in questa opera di Lana Wachowski un percorso catartico obbligato, sorta di completamento di un’evoluzione transgender e altro ancora che mi è capitato di sentir dire in difesa di un film che una volta ripulito da inutili sofismi – mi si perdoni sia la schiettezza che la mancanza di stile (e aggiungo stilemi) – resta semplicemente un indicibile sirtaki sugli zebedei, tout court. E paradossalmente non riesco ad apprezzare il palese e coraggioso intento di Lana di adottare uno script che non vada pedissequamente incontro alle aspettative nostalgiche dei vecchi spettatori, ironizzando ad es. sulle pressioni esterne della Warner Bros o sull’estremizzazione di un franchising nella vita reale che ha portato a crearne addirittura un videogame nel film.
Dovrebbe piacermi come attitudine, ma forse alle volte le buone intenzioni non collimano con un adeguato risultato.

Keanu Reeves (che a volte mi ricorda tragicamente il Commissario Giraldi) porta all’esasperazione la perplessità e stanchezza del suo personaggio, sfociando in una performance che alla fine lascia l’impressione di una recitazione distratta, assorta da problematiche non inerenti al film. Carrie Anne Moss serafica bellezza che affronta dignitosamente l’incedere della maturità fisica gravita attorno alla condizione di cameo. La mancanza di Hugo Weaving a ricoprire il ruolo di indefesso villain pesa quanto un macigno, tanto è monocorde e priva di mordente la recitazione del sostituto Jonathan Groff e sicuramente il nuovo Morpheus [Yahya Abdul-Mateen] non convince più del precedente, complice forse anche una diversa fisicità, suggerendo spesso la percezione di un surrogato. Siamo stati abituati in passato alle sostituzioni attoriali in “Matrix”, anche in ragione di tragici eventi, ma temo che una certa reiterazione abbia scombussolato l’ottimo equilibrio creatosi ai tempi del casting originale.

E a tal proposito, il resto degli attori è espressivo quanto un cast porno degli anni 80 e nessuno assolve efficacemente al proprio ruolo, anche subalterno, ma importante nella tessitura drammaturgica. Alcune comparse sfiorano infine con la propria espressività fumettistica il grottesco inteso nella sua peggiore accezione.

I combattimenti sono grezzi, confusionari, privi di quello spessore coreografico che ci ha consentito in passato di vederne molti di più, anche di durata superiore, MA senza annoiarci.

Apro una parentesi personale: non riesco a togliermi dalla mente l’immagine ricorrente di Keanu (presente fin dalla locandina) che prova a fermare qualsiasi cosa con le mani protese disperatamente in avanti con uno stile a metà tra Giucas Casella e quanto alle volte viene penosamente ritratto nelle copertine di cronaca provinciale che trattano minori abusati. Una sorta di ridondanza gestuale che sulla lunga durata mi ha stuccato.

La consueta fotografia ineccepibile di Toll (qui affiancato dal talentuoso figlio di Joe D’Amato) non salva la situazione, dovendo assecondare una scenografia che per quanto professionalmente imbastita (e su questo non avevo dubbi) odora inspiegabilmente di riciclo progettuale e risparmio materiale; e l’occhio vaga inutilmente alla ricerca della grandeur della originale ambientazione. Tutto pare più a misura di uomo e questo contenimento di orizzonti inibisce qualsiasi sollecitazione dello stupore cognitivo nello spettatore.
L’elemento bio-meccanoide, fatta eccezione per una breve e cruda sequenza sulle torri circolari, non intimorisce più e l’arrivo delle macchine amiche connotate da un bonario design da anime (m’è rimasta impressa l’immagine di una sorta di piccione tentacolare) disinnesca anche l’ultimo elemento di contaminazione terrorifica.

Il finale ufficiale (non parlo dell’idea simpatica post-credits di “Catrix”) è tanto insignificante quanto prevedibile. Su tutto incombe l’incapacità di generare la medesima empatia del passato.
Neanche la musica – fatta eccezione per la meravigliosa “White Rabbit” dei Jefferson Airplane – è coinvolgente come nei precedenti capitoli; al punto da esser sopraffatti dalla noia e quasi non preoccuparsi di quale possa essere il possibile esito dell’ultimo disperato salto nel vuoto dei nostri, alla ricerca di poteri perduti. Transfert psicologico? Paura che il film continui oltremodo? Chissà…

Concludendo, credo sia superfluo rimarcare quanto questo quarto e speriamo ultimo capitolo di “Matrix” non rappresenti di sicuro l’apice creativo della produzione Wachowskis [in realtà diretto solo da Lana, dato che Lilly dopo aver collaborato al soggetto è rimasta assorbita da altri impegni di lavoro e familiari]; e mi auguro vivamente che ottemperato al dovere di questa esperienza registica il talento della regista sia in futuro indirizzato verso nuovi soggetti. Non fosse altro per quanto pare spossato nel film, lasciamo che Neo riposi come merita.

Visto al cinema.
Non ancora distribuito da noi nel circuito home video, ma sono certo che troverete la vostra copia disponibile quanto prima.
Temo anche abbondantemente nel mercato dell’usato e titoli in offerta…

A cura di Luigi Maria Mennella © 2022.


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