Malignant

di James Wan (2021)

durata: 111’
produzione: USA
cast: Annabelle Wallis, George Young, Maddie Hasson, Jacqueline, McKenzie, etc
sceneggiatura: Akela Cooper
fotografia: Michael Burgess
musica: Joseph Bishara

Dal guru malese/maligno di un nuovo immaginario orrorifico arriva questa pellicola che parte dignitosamente – seppure con un retrogusto citazionistico di film decisamente non di nicchia (“Poltergeist”, “La metà oscura”, etc) del passato – poi a pochi secondi da una noia assertiva tra oscillazioni slasher e ghost movie ci stupisce con un colpo di scena body horror che vale da solo la visione e infine scivola lentamente verso un happy ending decisamente poco credibile se non nella malizia di un odore di franchising. Nel mezzo tutto quello a cui l’autore ci ha già abituato, cura dei dettagli inclusa (Wan ci ricorda che non può esistere un ‘cattivo’ senza un adeguato costume) e capacità di creare personaggi che sopravvivono ai titoli di coda. In questo caso, per come è strutturato l’epilogo, direi che c’è tranquillamente posto per altri 2 o 3 film. Quello che purtroppo non convince e in parte inficia la buona riuscita di un film comunque dignitoso e ovviamente professionalmente realizzato – a partire dagli interni dell’abitazione della protagonista Madison [una Annabelle Wallis funzionalmente corvina] ricostruiti in teatri di posa per consentire estreme god’s eye views – sono le incongruenze che sinceramente in un autore di genere esperto come lui (ricordiamo che primi episodi e produzioni a parte, ha continuato a scrivere per molti episodi delle fortunate saghe di Saw, Conjuring o Insidious) risultano alquanto bizzarre. Distrazione da sovraimpegno? Stanchezza creativa? Fatto sta che capita di vedere un cattivo con una propria fisicità che trascende però per agilità e forza il metafisico in movimenti certo suggestivi, ma non per questo meno difficoltosi (lo scontro al commissariato sembra uno scenario di Matrix); oppure una protagonista Madison che gestisce con nonchalance il proprio sanguinamento dalla testa. Aggiungiamo filmati in vhs con età sceniche improbabili o eroiche capacità soggiogative della suddetta impensabili verso chi è stato capace di tanto fino a quel momento, inquiniamo un po’ con cadute di stile ottantiane come voci pitchate (male) o momenti splatter con dinamiche da videogame (il “risveglio” di Gabriel nella cella che ricorda l’Hulk con Bill Bixby) e quel che resta è un nuovo horror, con un’ottima idea, ma non adeguatamente sviluppata. Oltre il contributo musicale di Joseph Bishara, ormai collaboratore abituale di Wan, il refrain di “Where is my mind” dei The Pixies coverizzati in chiave elettronica dai Safari Riot e che parte con le grida della protagonista è assolutamente sconcertante (o azzeccato?) nella sua atipicità contestuale involontariamente kitsch.

A cura di Luigi Maria Mennella © 2023.


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