titolo originale: “Coyote Ugly”
durata: 101’/108’
produzione: USA
cast: Piper Perabo, Adam Garcia, Maria Bello, Melanie Lynskey, John Goodman, etc
sceneggiatura: Gina Wendkos, Kevin Smith (non accreditato)
fotografia: Amir M. Mokri
musica: Trevor Horn + artisti vari
Ho percepito l’esordio su lungometraggio di McNally (regista di video musicali e spot pubblicitari – e vien da aggiungere: e si vede) come qualcosa di imbarazzante. E non tanto per mancanza di capacità tecniche o formali; tanto meno perché abbia diretto un film flop (anche solo nel mercato home video è un titolo tutt’ora richiestissimo), ma per la progettualità volta a far leva sui più bassi (ma nei fatti ‘medi’) istinti umani. Se questo sia dovuto alla forte azione pressoria sui punti nevralgici del testosteronismo canonicizzato (non manca niente, dall’accenno miss maglietta bagnata allo spanking, passando per primordiali esercizi di pole dancing in odore di ebbrezza sabatina) o a poco originali metafore sessuali (vogliamo farci mancare ragazze che si fanno spruzzare o annaffiano clienti con l’erogatore del selz?) ha poca importanza. Tanto meno se perché chiamato in causa il solletico pop-romantico di alcune circostanze (incluso il principe azzurro di sani principi e che sostiene i sogni della sua lei anche dopo – quale animo generoso! – un provvisorio addio). Il personaggio di Violet [Piper Perabo] cinematograficamente funziona: bella provinciale, ma non volgare, fasullamente inconsapevole della propria sensualità e più credibilmente del proprio reale talento (anche perché le performance vocali/playback non è siano esattamente da brividi vertebrali) che insegue il sogno americano nella Grande Mela; anche se nel film sembra che tutti gli americani sognino mele… Tuttavia viene riportata sulla retta via da un improbabile sostegno di solidali parenti e amici culturalmente anni luce da qualsiasi livello di emancipazione a cui la ragazza evidentemente aspira da una vita mentre fa la lavatrice al padre vedovo. Citando “Fame”, “Flashdance” con un sorso di “Cocktail” (il film di Donaldson, intendo) alla fine tutto si sistema in un ipocrita equilibrio morale che vede ristabiliti i ‘giusti’ ruoli in ragione della propria inclinazione etica. Cammeo di Michael Bay nel ruolo dello scontroso fotoreporter che porta l’attenzione dei media (ma anche dei paesani onanisti) sulla protagonista. Sul piano musicale si segnalano invece i cammei della cantante LeAnn Rimes che interpreta sul bancone del Coyote Ugly il suo tormentone “Can’t Fight the Moonlight” o precedentemente i The Calling con la hit ancora non al vertice “Wherever you will go”; e altra musica da Autogrill. Ruolo marginale, ma cardinale di Maria Bello [Lil, proprietaria del locale – si dice realmente esistito], che troverà sicuramente una giusta gratificazione attoriale nel successivo cronenberghiano “A History of Violence”. John Goodman [nel ruolo dell’apprensivo, ma tenerone padre casellante] si fa voler bene come sempre, ma rappresenta l’ennesimo innesto sornione – sicuramente meno dispendioso della strategica comparasata iniziale della top model Tyra Banks – in un tessuto narrativo fine a se stesso. Salvo un’auspicabile riflessione a posteriori sullo squallore alla base del divertimento di molte persone nel tempo libero che s’interseca con quello di altre intente a finalizzare le proprie velleità artistiche.
A cura di Luigi Maria Mennella © 2023.
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