titolo originale: “Incident In a Ghostland”
sceneggiatura: Pascal Laugier
durata: 91’
produzione: Canada / Francia
cast: Crystal Reed, Emila Jones, Anastasia Philips, Mylene Farmer, Rob Archer, Kevin Power
fotografia: Danny Nowak
musica: Todd Bryanton
Dopo la pausa de “I bambini di Cold Rock”, Laugier torna all’horror senza purtroppo raggiungere l’efferatezza psicologica e l’impatto mediatico-culturale di “Martyrs”, ma consegnandoci comunque una pellicola che mescola con classe soluzioni visive e narrative tradizionali con trovate personali; come d’altronde non potevamo non aspettarci da un autore del suo calibro.
E sicuramente l’alienazione psicologica / dissociazione post-traumatica della protagonista, la giovane promettente scrittrice Beth [Emilia Jones/Crystal Reed] costituisce il tassello più importante e interessante della sceneggiatura. Ad essa si aggiungono trovate disturbanti che oscillano tra fetish, sadismo e pseudopedofilia stemperate emotivamente e sgravate moralmente dall’innocenza ed età mentale del fautore [il massiccio, ma qui demuscolarizzato Rob Archer] – che si mostra e agisce a tutti gli effetti come un subnormale realmente interessato all’aspetto ludico – seppur favorite dalla presenza di un’ambigua figura femminile [Kevin Power]. Figura che completa con il transgenderismo la condizione superficiale di diversità della ‘coppia’ di assassini e esplica con lo sfogo di una naturalezza omicida il proprio disagio esistenziale sui malcapitati di turno. L’anonimato di entrambi suggella la trasversalità della propria identità in una storia dove la sofferenza – avvertita sulla pelle e sbirciata attraverso un edema maculare – crudelmente mal mascherata da ombretti e rossetti è fondamentalmente l’unica padrona di casa.
Lovecraft [ricreato con makeup e ‘cammeizzato’] assurge quasi a un moderno Virgilio che accompagna la protagonista nell’Inferno della propria percezione fisica di cui la psiche rappresenta l’unica possibilità limbica.
Il resto (camioncino losco, sorte dei poliziotti salvatori, sopraffatti resuscitati, sorelle gelose, bambole che ridono, segregazione e attesa, correlazione letteratura-realtà, etc fino al modo di concepire il finale) insieme a un apporto audio non proprio convincente (dal sound design tensionale stavolta poco incisivo ai mugugni dell’energumeno, a metà tra Sloth dei “Goonies” e La Creatura di “Frankenstein Junior”) costituisce il lato debole di un pur buon film. Talmente buono che l’impressione personale avuta è quella di un lavoro scritto per fare la tara agli ‘eccessi’ del passato in ragione di una più vasta comunicazione e allargamento di pubblico. Mossa di assestamento questa che purtroppo almeno al momento porta il regista un passo indietro rispetto allo sbeffeggiamento del sistema cinematografico americano e agiografico ecclesiastico per cui “Martyrs” resta a tutti gli effetti ancor oggi il capolavoro che ha consentito di magnetizzare l’attenzione tanto sulla produzione orrorifica francese quanto su un modo di concepirlo che aggirasse gli ormai triti meccanismi rappresentativi del genere.
A cura di Luigi Maria Mennella © 2022.
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