IN NUCE – UPDATE 17 MARZO 2024

aggiornamenti: Bussano alla porta, The Nice Guys, Case 39, Colpo di fulmine, Fast & Furious, Fast & Furious: Tokyo Drift, Final Fantasy, Fury

Film in ordine alfabetico


Alien vs. Predator

di Paul W.S. Anderson (2004)

con: Sanaa Lathan, Raoul Bova, Lance Henriksen, Ewen Bremner, Colin Salmon, etc., etc.

Solo per fans e sicuramente di più compiaciuta fruizione se a conoscenza del fumetto o videogame da cui trae origine questa pellicola tanto a lungo procrastinata. Per gli altri probabilmente un bizzarro prequel/spin-off che tuttavia (finale discutibile a parte) non sconvolge eccessivamente quanto narrato nell’arco temporale successivo abbracciato dagli altri film. Magari destabilizzante il lavoro riedificante sulla figura del Predator, a metà tra valoroso dio guerriero e poco ortodosso custode della nostra civiltà, di tanto in tanto ‘resettata’ per questioni logistiche… Alien ne esce in parte vituperato nella dignità all’interno di una sorta di archeo-allevamento intensivo. Tra citazioni spielberghiane e carpenteriane, la costruzione della tensione vacilla e collassa a causa di una tempra attoriale a dir poco pallida, MA – reddite quae sunt Caesaris Caesari – almeno gli scontri fisici (precisi come un orologio dal 60’ minuto – tra le due creature strappa la sufficienza per un film altrimenti da dimenticare. Henriksen (storico futuro androide Bishop nel franchise “Alien”) veste i panni dell’omonimo magnate in stato terminale che finanzia la spedizione.


Alien vs. Predator 2

di Colin e Greg Strause (2007)

con: Steven Pasquale, John Ortiz, John Lewis, Kristen Hager, Reiko Aylesworth, etc., etc.

Il debutto registico degli esperti di VFX dietro molti blockbusters di successo (uno a caso, “Titanic”/anche citato ironicamente) parte in quarta, illudendo lo spettatore che qualcuno abbia fatto tesoro delle mancanze riscontrate nel capitolo precedente. Meno pedissequo del rispetto dei paradigmi sydfieldiani (in compenso dopo 1h si guarda l’orologio e il tempo restante), acceleratore giù per la componente splatter (bambino sventrato dall’uscita di un ‘cucciolo’ di Alien e padre con braccio amputato dall’acido alieno), ma destinato al fallimento sulla lunga distanza. Pena uno script ottantiano poco pertinente con le esigenze narrative: non manca – e uso volutamente il linguaggio del periodo – neanche la biondina bona che flirta con lo sfigato di turno con relativa gelosia dell’ex (ovviamente palestrato e manesco) verso il malcapitato mal fisicato. Colpo di grazia la scelta di un’ambientazione pressoché notturna, con discutibili scelte di fotografia e color grading in questo contesto: il nuovo villain è un ibrido tra Alien e Predator …e alle volte non si distingue neanche chi le prenda da chi. Davvero snervante.


Antwone Fisher

di Denzel Washington (2002)

con: Denzel Washington, Derek Luke, Salli Richardson-Whitfield, Viola Davis, Kevin Connolly, etc.

L’esordio alla regia per Washington ruota attorno alla drammatica storia del Fisher del titolo (autore anche della sceneggiatura) e palesa una mano ferma, a tratti ineccepibilmente manieristica/formale, in altri momenti capace di dosate intuizioni personali, ma sempre estremamente misurate; così come misurato è l’approccio nella gestione degli aspetti laidi e torbidi della vicenda biografica (abbandono, abusi psicologici e sessuali, etc). Interessante il montaggio, soprattutto inizialmente, per la gestione delle ellissi temporali. Senza infamia né lode il giovane protagonista [Derek Luke] al suo debutto, mentre è perfettamente odiabile Novella Nelson nel ruolo di una spietata Tate / Tata. Soporifera e timbricamente trascurata la <fortunatamente> poco presente colonna sonora. Complessivamente un film introspettivo assolutamente casto che punta alla lacrima facile, ma genuina e intrattiene per due ore senza grosse difficoltà lasciano un ricordo buono, ma fievole.


Arctic

di Joe Penna (2018)

con: Mads Mikkelsen e Maria Thelma Smáradóttir.

Già dallo slogan tautologico (“sopravvivere o morire”) si evince che lo sceneggiatore non si sia fatto sanguinare le tempie…eppure il film è piaciuto; e a tanti. Che sia merito del naturale talento e sforzo fisico sostenuto di Mikkelsen o della suggestiva desolazione dei paesaggi artici (per l’esattezza islandesi) non mi è chiaro. Io <ATTENZIONE SPOILER> ho solo visto un povero cristo intento a spingere per tutto il film su uno slittino una donna moribonda con la stessa tenacia di Scart de “L’Era Glaciale”, esultare per il cambio di menu (da pesce crudo a pesce bollito) e scacciare un orso di 2 metri e mezzo con un bengala; segnalando anche una breve parentesi che ricorda il “127 ore” di Boyle, seppur se con esito meno traumatico. L’unica speranza di salvare il film con una nota di distrattiva, ma forse verosimile amarezza, viene annientata da un -tra l’altro prevedibile- lieto fine.


Black Snake Moan

di Craig Brewer (2006)

con: Samuel L. Jackson, Christina Ricci, Justin Timberlake.

Come nel precedente “Hustle & Flow”, ancora Tennessee/Memphis, ancora musica (in questa pellicola non rap, ma più pertinente blues), ma questa volta il fulcro della storia è la metafora del legame (perfettamente rappresentato dalla grossa catena con cui sarà imprigionata la protagonista), non così oppressivo (catena lunga/tolleranza verso i continui adulteri), ma saldamente fissato a un termosifone (il calore del focolore domestico e le sue rassicurazioni). Il blues per cui un sempre convincente Jackson ha imbracciato per la prima volta una Gibson a ridosso delle riprese -ai fini di un realistica (e non male) performance musicale diegetica- si sposa, come da tradizione, con il canto del dolore per le proprie paure e perdite, ma diviene anche strada di ricostruzione o redenzione. Ben oltre l’aura moralistica che tende a patinare di tanto in tanto una storia tutt’altro che pudica (per quanto giustificata da un passato di abusi). Timberlake ha un ruolo di raccordo con il finale disperatamente ottimistico. Chi stupisce invece per immedesimazione attoriale e folgorante inedita sensualità è la Ricci che – facile parallelismo con gli abiti a parte – non si risparmia nel mettere a nudo una sofferta fragilità che muove a laica compassione. 


Blood Ties – La legge del sangue

di Guillaume Canet (2013)

con: Clive Owen, Billy Crudup, Marion Cotillard, Mila Kunis, Lili Anne Taylor, Zoe Saldana, James Caan.

Buon poliziesco con venature neo-noir che trasporta su suolo americano il rifacimento di un precedente lavoro (“Les liens du sang”, noto anche come “Rivals” di Jacques Maillot, 2008) dove il regista era invece interprete. La regia è solida e si concede passaggi autoriali insoliti per i canoni del genere che -affiancati dalla convincente interpretazione del cast, oltretutto con volti perfetti per la messa in scena newyorkese degli anni 70- ci consegna una pellicola godibile fino agli ultimi (sorprendenti) minuti. Ruolo secondario per Caan qui in vesti più remissive del consueto. Musica spesso minimale (basso -a orecchio direi semiacustico- e batteria), ma efficace nel suo affiancamento in tempo reale alle immagini. Complessivamente un perfetto ritratto (anticipato dal titolo originale, ignorando le solite forvianti aggiunte) dell’indissolubilità del legame fraterno, talvolta risorsa, altre condanna, ma sempre e comunque al di sopra di qualsiasi legge morale o interesse.


Blue Ruin

di Jeremy Saulnier (2013)

con: Macon Blair, Devin Ratray, Amy Hargreaves, etc.

Revenge movie decisamente alternativo per mancanza di exploit rambistici, premeditazioni shakespeariane o fisicità prorompente. Il personaggio principale fa tenerezza, perfino alla polizia che solitamente in questi frangenti è dipinta peggio dei carnefici. Forze dell’ordine ufficiale che per tutto il film saranno tagliate fuori -proseguendo la ’sana’ tradizione cinematografica della giustizia privata- da quella che alla fine è una complicata e improvvisata faida tra famiglie dove i docili imparano a esser violenti e i violenti periscono in preda alla propria irruenza. Ed è forse proprio l’improvvisazione, partorita tra disperazione e rassegnazione il punto di forza – anche se incide per claudicanza nel ritmo della narrazione – in una trama che sembra scritta di fianco al protagonista nei giorni che lo accompagnano e con esso respirando. Nessun lieto fine; salvo quella forma di pace che solo il termine di una ricerca può donare. A tratti autoriale, sufficientemente sanguinolento e godibile fino al purtroppo (im)prevedibile finale.

Bussano alla porta

di Night M. Shyamalan (2023)

con: Jonathan Groff, Ben Aldridge, Kristen Cui, Dave Bautista, etc.

Il nuovo lavoro del cineasta indiano conferma il trend di ripresa creativa sotto il profilo narrativo (le doti tecniche non si discutono); anche grazie a un soggetto premiato non suo (“La casa alla fine del mondo”, romanzo horror di  Paul Tremblay) e una messa in scena che giocando sul meccanismo dei falsi indizi / depistaggi riesce a sorprendere fino all’epilogo, contrariamente, forzatamente ottimistico. E decisamente poco hanekiano per quanti abbiano ravvisato similitudini iniziali. Cast abbastanza anonimo, seppur funzionale, fatta eccezione per la dotatissima attrice di 10 anni Kristen Cui e paradossalmente l’ex-wrestler Bautista il cui ruolo di gigante ‘buono’ / energumeno pseudo-intellettuale cucito sul suo contrasto fisico-comportamentale funziona. Cammeo del regista in una televendita di friggitrice ad aria (metafora auto-ironica?) , riproposta integralmente nei contenuti extra del blu-ray, così come le scene eliminate che sinceramente per buona parte potevano tranquillamente e piacevolmente essere incluse nel montaggio.


Case 39

di Christian Alvart (2009)

con: Renée Zellweger, Jodelle Ferland, Ian McShane, Bradley Cooper, etc.

Film praticamente di genere (bambini assassini, possessioni e sconvolgimenti familiari, investigazioni occulte et similia), senza picchi di originalità, ma assolutamente fruibile fino alla fine e che dalla sua ha una buona interpretazione della due protagoniste. La Zellweger in insolita veste drammatica risulta convincente a dispetto di visibili problemi di rigidità facciale (…) così come buca lo schermo la coprotagonista: la giovane e angelica – in senso luciferiano ca va sans dire – Ferland. McShane conferma la carismatica videogenia, anche grazie a un volto che avrebbe fatto la felicità di Leone. Cooper <ATTENZIONE SPOILER> abbandona la scena a metà pellicola, con una delle due scene probabilmente più memorabili (autentico incubo entomofobico), anche se la migliore per realistica crudezza resta quella iniziale del forno; che da sola vale la visione del film. Comparto effettistico sicuramente migliore sul versante ‘analogico’ che digitale. L’improbabile happy ending viene riscattato dal finale alternativo recuperabile nell’home video.

Chasing Ghosts

di Kyle Dean Jackson (2005)

con: Michael Madsen, Corey William Large, Shannyn Sossamon, Gary Busey, Michael Rooker, etc.

Post-fincheriano poliziesco giallesco (e ingiallito per soluzioni di montaggio) senza infamia, ma con poca lode e che diviene prevedibile -complice l’espressività di Large– già a metà durata; anche se il twist finale va ben oltre le previsioni per poca verosimiglianza. La Sossamon è mero elemento coreografico, Rooker funge da raccordo narrativo analettico, ma Madsen si conferma un buon caratterista, qui a metà tra una versione poco pulita dell’ispettore Colombo e James Dean a 30 anni da uno scampato incidente. Musica godibile pur nella sua semplicità arrangiamentale, ma quasi da guinness dei primati per presenza: praticamente una scena sì e una no! E a fugare qualsiasi dubbio sulla melomania del regista, troviamo un cammeo di Meat Loaf negli alti gradi della polizia. Danny Trejo invece si presenta nei panni di un criminale interrogato che si trasforma surrealmente in pacato intellettuale. Complessivamente guardabile, ma con fatica; soprattutto nell’ultima diluita mezzora.

Colpo di fulmine – Il mago della truffa

di Glenn Ficarra e John Requa (2009)

con: Jim Carrey, Ewan McGregor, Leslie Mann, Rodrigo Santoro, etc.

L’esordio registico degli sceneggiatori dell’iconico “Babbo Bastardo” ci consegna una commedia rocambolesca dove denaro e sentimenti sono legati da un sottile filo di inganno a fin di bene. Paradossalmente per il duo è proprio lo script la parte debole, a partire dalle hawkinghiane capacità d’apprendimento del protagonista Steven [Jim Carrey] fino alla semplicistica atmosfera carceraria all’acqua di rose. I cliché omosessuali sono fortunatamente affrontati con auto-ironia e tempi stretti vengono concessi alle aperture drammatiche; come quelle che toccano il tema dell’HIV. Il resto, in parte confusionario è protetto dal beneficio del dubbio, trattandosi di un soggetto basato su una storia vera. La versione acquistata da Lucky Red (e lo prova il minutaggio del mio blu-ray: 98 minuti contro i 102 della pellicola originale) è stata rimontata tagliando la maggior parte delle scene omosessuali (sic!). Sollevano tuttavia le sorti di un film altrimenti non memorabile (pareidolia fallica delle nubi a parte) l’istrionismo di Carrey, più in forma nei toni tragici (plauso particolare all’espressività nella scena della finta malattia) e lo stato di grazia di McGregor, credibilissimo e squisitamente non caricaturale.


Echi mortali

di David Koepp (1999)

con: Kevin Bacon, Zachary David Cope, Kathryn Erbe, Illeana Douglas, etc.

Nonostante come sceneggiatore abbia fatto la fortuna commerciale di tanti lavori diretti da Spielberg, De Palma, Howard, Raimi, etc, Koepp esordisce nel lungometraggio con un flop (“Effetto Black Out”/N.B. nello stesso anno ironicamente firma lo script di “Mission Impossible”). Tre anni dopo arriva invece questo film che se da un lato non aggiunge molto allo sviluppo del thriller paranormale/ghost movie, si fa tuttavia apprezzare per una regia e fotografia curata, un comparto effettistico non esagerato, ma pulito e soprattutto uno sviluppo narrativo capace – complice il binomio Bacon/Luca Ward – fino alla fine di destare l’interesse dello spettatore. Meno fortunata la traduzione del suggestivo titolo originale (“Stir of Echoes”) come da tradizione italiana ribattezzato con palesi intenti di richiami da botteghino. P.S. Esiste un evitabilissimo sequel (non di Koepp) ancora inedito in Italia.


Elle

di Paul Verhoeven (2016)

con: Isabelle Huppert, Laurent Lafitte, Anne Consigny, Charles Berling, Christian Berkel, etc.

Sorvolando sui nomi/certezze tra le file pre-produttive e perfino sulla presenza della stessa Huppert (di cui non ho memoria di film che non abbia apprezzato anche solo grazie alle sua presenza e abituale qualità attoriale), il penultimo film di Verhoeven si prospetta coinvolgente fin dai primi minuti. E non tanto per quel che accade di per sé, ma piuttosto per la capacità d’interazione del cast, per le reazioni dei personaggi apparentemente propense alla ricercatezza autoriale, ma a ben vedere (e il tempo chiarirà ogni singolo battito di ciglia) estremamente umane e mai sopra le righe. Quell’umanità di corridoio che nella frenesia e anestesia contemporanea sfugge o dispiace, ma che permea la vita di molti. E questo Verhoeven lo ha ben presente, traducendolo – con la sua innata vena ironica – in immagini e sequenze memorabili tra umorismo dissacratorio e perversione metabolizzata, donando anche a ciò che rasenta il grottesco una pulsante verve di possibilismo. C’è poco da aggiungere a riguardo: un capitolo imprescindibile nella filmografia del regista olandese.

Fast & Furious

di Rob Cohen (2001)

con: Vin Diesel, Paul Walker, Michelle Rodriguez, Jordana Brester, etc.

Primo capitolo di una fortunata serie che deve tutto alla fascinazione delle quattro ruote (soprattutto se modificate) con la solita infarcitura eroto-sentimentale di contorno in un’atmosfera generale fruitiva da raduno di avvinazzati. Script al limite del plagio (“Point Break” in primis), qualità attoriale non pervenuta (fatta eccezione per l’efficace caratterismo di Diesel), ma si salva il comparto VFX nella messa in scena di dettagliate sequenze automobilistiche di tutto rispetto; soprattutto nel finale heist fallimentare. Musica sincopata ed equalizzata in maniera filologicamente azzeccata per l’immaginario sonoro che ci si aspetterebbe sui veicoli utilizzati. Tuttavia, se si esclude la finalità di puro intrattenimento adrenalico confinato alle corse, il prodotto s’inserisce a pieno merito nell’ambito delle tamarrate ben confezionate. 

Fast & Furious: Tokyo Drift

di Justin Lin (2008)

con: Lucas Black, Sung Kang, Brian Tee, Nathalie Kelley, etc.

Prima di arrendermi all’evidenza…all’ennesima pacca sulle natiche estraggo il blu ray del secondo imbarazzante capitolo di questo franchise indirizzato a un target palesemente adolescenziale e tento con il terzo (il film in oggetto): una variazione esotica che poco aggiunge al format. Oltretutto deviando dal piano narrativo principale con il quale si congiunge solo nel finale attraverso il cammeo di “Dom” [Vin Diesel]. Per lo script stavolta si saccheggia “Karate Kid”: il protagonista [Lucas Black] in età scolastica (in realtà dimostra 30 anni), tirato su dalla madre tra un trasloco e l’altro, ne busca dall’esperto in una disciplina (il drifting) nella quale poi – dopo un duro allenamento – riesce ad emergere e vincere, conquistando la donna del rivale. Il comparto femminile è più aggraziatamente avvenente, ma peggiora l’aspetto recitativo; certo non aiutato da dialoghi più deboli della sceneggiatura. Anche stavolta l’unico appeal è fornito dalle corse automobilistiche (es. la vertiginosa gara finale in montagna), ma in sostanza il rischio di tedio resta dietro l’angolo. Pardon! Curva.

Final Fantasy

di Horonobu Sakaguchi (2001)

doppiatori originali: Ming-Na Wen, Alec Baldwin, James Woods, Ving Rhames, Steve Buscemi, Peri Gilpin, Donald Sutherland, etc.

Ho sempre reputato i film derivati/ispirati ai videogames et similia un autentico oltraggio al lavoro dello sceneggiatore. Tra le pochissime eccezioni ho dovuto con il tempo aggiungere questa pellicola d’animazione dall’infelice titolo (molto meglio l’originale “Gaia”), meravigliosamente realizzato al punto da far soprassedere sull’originalità o profondità della scrittura. Per quanto – soprattutto per me che non conoscevo il gioco – l’idea di alieni invasori che non sono tali, ma fantasmi di diverse creature viventi, confuse e inferocite, arrivati come profughi su un frammento di pianeta auto-distrutto a mo’ di arca di Noè risulterebbe godibile anche in versione live-action. Lo straordinario livello di accuratezza grafica dei personaggi (solo gli occhi restano il tallone di Achille di questo tipo di prodotti) ottenuto grazie al mocap di irriconoscibili volti del cinema, la raffinatissima fotografia e un’avvolgente scelta di inquadrature rendono – al di là di qualsiasi considerazione – questo film un autentico gioiellino d’animazione del periodo e un piacere per le pupille. Ottima anche la colonna sonora di stampo sinfonico, ma mai esuberante, così come la prima (no comment sulla seconda) canzone di vago sapore celtico che accompagna i titoli di coda con la splendida voce di Lara Fabian. Peccato che il film sia costato talmente tanto in termini economici e di lavoro che la casa produttrice (Square) abbia rasentato la bancarotta dopo gli ingrati esiti di botteghino.

Fury

di Brian De Palma (1978)

con: Kirk Douglas, Amy Irving, Andrew Stevens, John Cassavetes, Fiona Lewis, Carrie Snodgress, Charles Durning, etc.

Interessante, anche se non certo tra le migliori pellicole di De Palma con connotazioni ibride. Si parte dall’action iniziale che profeticamente sembra suggerire alcuni attentati terroristici jihadisti (come quello in Tunisia del 2015), spionaggio con i classici movimenti di macchina dell’autore, paranormale (telecinesi, preveggenza, etc) che non lesina sangue e auto-citazioni (“Carrie”); fino alle sue conseguenze più estreme. Per il finale si sconfina nello splatter, anticipando di qualche anno Cronenberg (che riprenderà perfino l’idea della vena pulsante sulla fronte per il suo “Scanners”). Interpretazione generale non esaltante e stereotipata, ma è godibile la colonna sonora di Williams, stilisticamente retro-datata, di sapore noir,  maestosa per sottrazione, ma non wagneriamente pomposa come in altri suoi più celebri contributi musicali.


Jona che visse nella balena

di Roberto Faenza (1993)

con: Juliet Aubrey, Jean-Hugues Anglade, Luke Petterson/Jenner Del Vecchio, etc.

Se il sopravvalutato “La vita è bella” mette in scena un versione edulcorata dell’Olocausto (per non parlare del paraninfico finale), questo precedente lavoro di Faenza – da cui Benigni attinge evidentemente, a partire dal depotenziamento della violenza tramite la chapliniana leggerezza ludica o il carico affettivo – sceglie analogamente di smorzare i toni drammatici, affidandone una lettura semiologica tra le righe. Importante, funzionale, forse fastidioso, ma concreto il filtro percettivo dell’ingenuità/incosapevolezza infantile del piccolo protagonista che poco comprende da fanciullo (voice over analettico a parte / ricordiamo che è una sorta di biopic di un fisico nucleare sopravvissuto ai lager), e poco più – anche per motivazioni di autoprotezione psicologica – da ragazzino; riaffacciandosi a guerra finita e in un nuovo nucleo familiare d’adozione a poco a poco alla vita. Toccante nello specifico la scena dell’alimentazione furtiva e alla vecchia maniera dello pseudo-trogolo acquisita durante la reclusione. Commento sonoro di Morricone, memorabile soprattutto per il ri-arrangiamento del sabattiano “Gam Gam” scritto da Botbol per la sua corale Les Chévatim.


La Abuela – Legami di sangue

di Paco Plaza (2021)

con: Almudena Amor, Vera Valdez, Karina Kolokolchykova, Marina Gutiérrez, etc.

Strappa la sufficienza (e chi mi conosce sa quanto detesti attribuire voti) questa nuova pellicola di uno dei padri dell’ottimo franchise “REC”. Confezionato professionalmente (e astutamente), dal primissimo richiamo più o meno volontario al fortunato “Relic” alla fisicità delle protagoniste, modelle anche nella vita (la giovane Amor alle sue prime esperienze recitative / e si vede e l’anziana Valdez, dal tormentato, ma effervescente vissuto), passando per i velati accenni saffici che fanno sempre presa su una certa tipologia di pubblico (che fa pur numero), finendo con la fotografia molto curata e che ci regala attimi di raffinato equilibrio cromatico e compositivo. Durata eccessiva per quel che nei fatti accade ed è parzialmente prevedibile, purtroppo. Pur riconoscendo la coraggiosa intenzione (ma non il felice esito) di sacrificare l’aspetto percettivo a favore di un thrilling cesellato nell’incomprensione dei fatti, nell’angoscia delle risposte mancate, dei silenzi verbali, ma anche musicali, fino alla disfatta affettiva e la disperata incapacità di proteggere i propri cari. Ed è forse proprio l’aver calcato eccessivamente questo sentiero che restituisce un film in cui -salvo rari attimi di reale suggestione visiva (es. la gesticolazione anatemica de La Nonna o il trasferimento orale di spirito che sembra aver in mente la pittura di Goya)- sensazione di prolissità e deja vu inficiano pesantemente la fruizione.


La classe – Entre le murs

di Laurent Cantet (2008)

con: François Bégaudeau, Cherif Bounaïdja Rachedi, François Bégaudeau, Juliette Demaille, Laura Baquela, Nassim Amrabt, Louise Grinberg, etc.

Quasi più un documentario -complice la naturalezza del cast- che film, questo lavoro scaturito da workshop d’improvvisazione da cui sono stati estrapolati i protagonisti e che mette in scena un anno scolastico di una problematica classe media nella periferia di Parigi. Un cast costituito da insegnanti volontari -tra cui lo stesso Bégaudeau, autore del romanzo da cui nasce questo lavoro- e reali alunni e genitori. La pellicola ci ricorda o insegna le difficoltà del mestiere/missione dell’insegnante (quando coscienzioso e non intento a godersi solo i privilegi del ‘posto fisso’), la fragilità dietro l’arroganza adolescenziale, le dinamiche difficoltose d’integrazione poli-culturale e l’ottusità dei protocolli gestionali scolastici. Il tutto appunto ‘tra le mura’ di un microcosmo dove l’apprendimento sembra l’unica possibilità di fuga da una realtà esterna scomoda e a cui si accenna con reticenza. L’eccessiva lunghezza alla fine è più che giustificata tanto dalla scelta registica d’immergersi empaticamente nella quotidianetà dei “personaggi”, quanto dalle tempistiche necessarie alla loro espressività non professionale, ma capace di regalare dialoghi o scambi di battute brillanti oltre la patina d’informale amatorialità.


La Famiglia Addams

di Barry Sonnenfeld (1991)

con: Raùl Julià, Morticia Addams, Christopher Lloyd, Christina Ricci, Elizabeth Wilson, Dan Hedaya, etc..

Esordio registico dell’ex-DOP dei primi Coen senza infamia né lode. Complice forse anche la scelta strategica delle omonime vignette di Charles Addams, poi trasposte nella  nota serie televisiva di successo degli anni ’60. Se da un lato la sceneggiatura grossolana non brilla certo per inventiva (fatta eccezione per il freaks party e il saggio scolastico), l’impianto visivo drasticamente convertito al colore regge. Anche grazie a una cura scenografica (così come i costumi) che pur offrendo scorci macabri conserva un design nobiliare e meno fatiscente rispetto alla serie. Effetti speciali non allo stato dell’arte (matte painting talvolta evidenti, chroma key con aloni residui, etc), ma almeno Mano [‘interpretata da un prestigiatore] ora può lasciare la scatola… Il necessario recasting presenta qualche punto debole quali il barocchismo dei personaggi di Lurch o della Nonna o qualche restyling destabilizzante: la nuova Morticia [Angelica Houston] ha sicuramente un volto meno aggraziato dell’originale Carolyn Jones, ma possiede comunque un suo fascino, spigoloso come la sua anima. E  sicuramente spicca per efficacia la nuova Mercoledì [un’undicenne Christina Ricci, già potenzialmente iconica]. Tirando le somme quindi un’operazione cinematografica non basilare, ma a conti fatti pur sempre gradevole e che verrà poi perfezionata nel sequel dello stesso autore.


L’ombra del testimone

di Alan Rudolph (1991)

con: Demi Moore, Glenne Headly, Bruce Willis, John Paklow, Harvey Keitel etc.

Storia di un legame amicale tra due ragazzine nato tra i banchi di scuola (come sottolineato dalla vecchia pellicola domestica visionata anche in coda al film) e destinato a spingersi in età adulta oltre il lecito morale; o perlomeno legale, date le attenuanti circostanziali. Al centro la subordinazione della donna che da vittima sceglie la strada del carnefice come unica possibilità (temporanea) di riscatto. Attorno un film che sembra più lungo del minutaggio dichiarato a causa di uno script non in grado di mantenere il giusto ritmo – nonostante la struttura analettica di base piuttosto semplice – e che scivola nella previdibilità sul finale. Keitel, presenza sempre gradita, ha le mani piuttosto legate nella sua funzionalità narrativa. Ironia del caso: il casus belli sono le avances di Willis alla Moore sposata pochi anni prima nella vita reale. Guardabile, ma assolutamente non memorabile.


L’ultimo terrestre

di Gian Alfonso Pacinotti (2011)

con: Gabriele Spinelli, Roberto Herlitzka, Anna Bellato, Gianluca Marinelli, Teco Celio, etc.

Dal noto fumettista Gipi (che a sua volta trae spunto dalla graphic novel del collega Giacomo Monti) un interessante debutto. Un lungometraggio in grado di miscelare freschezza non tematica, ma sicuramente narrativa con il marciume sociale in oggetto, compensando qualsiasi riscontrabile ruvidezza nella messa in scena con delicate intuizioni surreali. Intuizioni che tra calibrata trivialità,  coraggiose scelte grottesche e rischiose derive oniriche (quest’ultime forse la parte meno riuscita) fanno emergere più sensibilità di quanto l’ambientazione potrebbe suggerire di coltivare. Scelta del cast – su qualsiasi livello d’importanza o partecipazione – assolutamente azzeccata e adeguata alla connotazione borderline dei personaggi; così come assolve più che dignitosamente al suo ruolo il contributo sonoro che spazia dalla piano music all’elettronica sperimentale di Viglian fino al pop-rock punkettoso e quirky dei Digitalism. La satira sulla fuffa e marketing ufologica è tragicamente ben riuscita. Infine, Marinelli in versione trans è assolutamente delizioso e rispettosamente non caricaturale.


Mommy

di Xavier Dolan (2014)

con: Anne Dorval, Suzanne Clément, Antoine Olivier Pilon, Patrick Huard, etc.

Meritatissimo Premio della Giuria a Cannes per il precoce e poliedrico artista canadese, capace di delineare dall’inizio alla fine senza cadute qualitative o di stile il tormentato e profondo rapporto d’amore tra una madre che cerca di ricostruirsi una vita e un figlio problematico, ma dalla personalità effervescente. Assolutamente meravigliose per coinvolgimento empatico alcuni ‘quadretti’ d’interazione familiare o amicale, straordinaria l’interpretazione dei protagonisti (su tutti quella di Anne Dorval e Suzanne Clément) e geniale il passaggio dall’asfittico aspect ratio 1:1 al full screen nei rari momenti di ariosa speranza.


Next

di Lee Tamahori (2007)

con: Nicholas Cage, Julianne Moore, Jessica Biel, Thomas Kretschmann, etc.

Restando nell’ottica anticipativa, le premesse sarebbero anche state buone: soggetto tratto da un romanzo di Dick, sceneggiato da Goldman (“Atto di Forza”, “Minority Report”, etc) e girato dal regista del gia sorprendente film <di debutto> “Once were warriors”. La direzione attoriale purtroppo è manchevole, con risultati che oscillano tra una Moore qui ingessata all’ittico Cage (vittima di un micidiale trucco & parrucco), passando per la sensuale, ma poco incisiva Biel. Alla lunga può stuccare la chiaroveggenza balistica che culmina nel finale schivamento di pallottole di matrixiana memoria, ma tra azione -tanta e tecnicamente ben realizzata-, locations azzeccate e la messa in scena di 40 minuti di ‘film possibile’ resettato per lasciare un finale aperto, la pellicola volge al suo termine lasciando l’impressione di un prodotto con i suoi limiti, eppur tutt’altro che noioso. Nei panni di un ricettatore di auto abitualmente rubate dal protagonista/figlio, troviamo inizialmente un cammeo di Peter Falk nel suo penultimo film, poco dopo la diagnosi di Alzheimer.


Noise

di Steffen Geypens (2003)

con: Ward Kerremans, Sallie Harmsen, Johan Leysen, Jesse Mensah, etc.

Stress post partum al maschile per un uomo che già dalle premesse dubito che possa suscitare le simpatie del pubblico: ricco ereditiere, percepisce soldi dagli sponsor come influencer sfruttando l’immagine del pargolo, critica le entrate economiche inferiori della moglie. Contrariamente la compagna si dà da fare per mantenere un dignitoso contatto con la realtà, a partire dai tentativi relazionali e collaborativi con la comunità che li ospita. Resta tuttavia inspiegabile come possa rimanere così tranquilla a lasciare da solo e tanto a lungo il figlio con una persona (il marito) che manifesta evidenti disturbi psichici, ha una situazione pregressa di perdita mai elaborata e definisce il figlio “moccioso”. Di contorno una cittadina cordiale quanto Dinamite Bla e una sorta di giallo redentore per l’immagine del padre di lui ingiustamente ricoverato come rimbecillito, ma che salvo sporadiche défaillance è più lucido del figlio. Finale con pretese catartiche assolutamente fallimentare nella messa in scena. L’unico pregio – la facoltà ipnoinducente – viene vanificato da jumpscares e whooshes di routine.


Old Man

di Lucky McKee (2022)

con: Stephen Lang e Marc Senter.

Buon thriller psicologico, intimista, quasi reinhardtiano fatta eccezione per i flashback che concorrono a delineare il personaggio – mera stralunata spalla – di Joe [Marc Senter]. Lang a conferma del suo talento regge praticamente il film -sorta di piece teatrale cinematografica- sulle sue spalle. La fotografia sfiora intelligentemente la sovraesposizione in qualsiasi momento si corra il rischio di un’apertura verso un esterno che scenograficamente non esiste. Il finale che ricicla Senter nei panni di un odierno Carl McCoy rischia di rovinare l’equilibrio recitativo mantenuto fino a quell’istante, ma il film si salva comunque sul finale con l’idea del loop narrativo, riuscita metafora di un’esistenza tormentata e logorata da senso di colpa, solitudine e paranoia. L’unica componente orrorifica tirata in ballo per questioni di richiamo commerciale riguarda il deturpante lavoro dell’estetista sulle sopracciglia di Liana Wright-Mark.


Orphan: first kill

di William Brent Bell (2022)

con: Isabelle Fuhrman:, Julia Stiles, Rossif Sutherland, Matthew Finlan, Hiro Kanagawa, etc.

Atteso prequel dell’ennesima variazione sul tema ‘evil children’ firmata da Collet-Serrat circa 13 anni fa e arrivato da noi direttamente tramite mercato home-video, come spesso accade con l’ausilio dell’attivissima Midnight Factory. Più sanguinario del primo, anch’esso con le sue debolezze di script (in primis la passeggiata di salute della fuga dall’istituto psichiatrico), ma con almeno qualcosa d’inaspettato; che è sempre manna dal cielo in un settore come l’horror. Il twist – anticipato probabilmente per evitare che qualcuno tra MacGuffin e leggerezze narrative potesse arrivare a deleterie conclusioni qualitative – presenta un interessante imprevisto di percorso, donando alla pellicola una più dignitosa conclusione. Fermo restando che se non si è fan dal personaggio il film certo non rientra tra i must-see dell’anno. Interessante, ma scaltro il tentativo di ribaltamento empatico dello spettatore attuato attraverso l’inserimento della componente discriminatoria nella seconda parte.


Peppermint – L’angelo della vendetta

di Pierre Morel (2018)

con: Jennifer Garner, John Gallagher Jr., John Ortiz, Juan Pablo Raba, etc.

Che Morel sia un ottimo confezionatore di action movie in salsa di piombo credo sia ormai assodato: attuata la necessaria suspension of disbelief nelle sequenze tatticamente più audaci e nell’improbabile e fiacco finale, il film in tal senso è tecnicamente ben girato. E nel calcare il sentiero del revenge movie winneriano segue narrativamente in gran parte gli stilemi, ma, ahimé, anche i cliché del genere. Quest’ultimo sicuramente è il lato più debole, senza tuttavia annoiare e offrendo anche qualche scintilla di sorpresa di tanto in tanto. Non raggiungendo infine – come un po’ tutta la filmografia del regista francese – lo status di capolavoro. Assennata la scelta di script di non scoprire eccessivamente le carte sul passato della protagonista: una Garner in ottima forma, che regge sulle larghe spalle e in barba all’anagrafica buona parte della messa in scena e del coinvolgimento empatico del pubblico. Debole il bilanciamento drammaturgico del villain, interpretato -abbastanza anonimamente- da Raba.


Rapina a mano armata

di Stanley Kubrick (1956)

con: Sterling Hayden, Coleen Gray, Elisha Cook, Marie Windsor, Vince Edwards, Jay C.Flippen, etc.

Per quanto più acerbo rispetto alla produzione successiva (ma pur sempre una spanna sopra tanta precedente altrui), questo avvincente noir di Kubrick elabora nei meandri dei topoi tipici del caper movie un racconto assolutamente convincente, sviluppando la pianificazione della rapina quasi con la medesima proverbiale maniacalità dei dettagli con cui l’autore è passato alla storia. Il ritmo narrativo è ben sostenuto, ma la caratterizzazione dei personaggi (peraltro esteticamente poco diversificati) non è particolarmente approfondita. Fatta eccezione per lo sfortunato cassiere cornificato e al centro di una frenetica sparatoria che Tarantino non può non aver avuto in mente quando ha girato il suo “Reservoir Dogs”. Tuttavia la ricercatezza delle inquadrature, la cura della fotografia e non ultimo l’utilizzo innovativo del flashback sincronico -che amplia senza inficiare la percezione degli eventi- contribuiscono a mantenere tutt’oggi (chapeau!) lo spettatore ‘sulle spine’ fino al memorabile beffardo finale. 


Six Feet Under

vari – serie (2001/2005)

con: Michael C.Hall, Frances Conroy, Peter Krause, Lauren Ambrose, Freddy Rodriguez, Rachel Griffiths, Mathew St.Patrick, Richard Jenkins, etc.

Una delle migliori serie drammatiche (anche se come nella vita reale non mancano i risvolti tragicomici o surreali) di inizio millennio, imperniata sulla formula decesso-riflessione empatica con un cast assolutamente perfetto (dalla somiglianza fisica dei membri della famiglia di impresari funebri alla loro qualità attoriale) e in grado di gestire egregiamente parallele problematiche esistenziali: consapevolezza omosessuale, emancipazione sessuale, solitudine e autodeterminazione adolescenziale, rivendicazione o recupero esperenziale, etc. Scritta dal drammaturgo Alan Ball (fresco di Oscar per “American Beauty”) che ne ha chiesto la fine anticipata nonostante l’enorme successo in fieri; epilogo che si è poi tradotto visivamente dopo un accurato brainstorming tra sceneggiatori in ulteriore capolavoro che ne ha giustamente incrementato il valore cinematografico.


Sky Captain and the World of Tomorrow

di Kerry Conran (2004)

con: Jude Law, Gwyneth Paltrow, Angelina Jolie, Giovanni Ribisi, Bai Ling, etc.

Superato l’impatto iniziale del total fake scenografico, una fotografia (strategicamente) fluosa e un color grading indeciso, il film – a metà tra fantascienza anni’50 e il noir più politicizzato – si fa apprezzare per il raffinato impatto visivo, utilizzo di retro-tecnologia e i tanti omaggi cineastici. Spielgeriano fino al midollo per trovate sceniche, gestione sentimentale di coppia e perfino commento sonoro. Cammeo virtuale di Laurence Oliver fatto rivivere attraverso immagini d’archivio.


The constant gardener

di Fernando Meirelles (2005)

con: Ralph Fiennes, Rachel Weisz, Danny Huston, Hubert Koundé, Pete Postlethwaite, etc.

A conferma del talento dimostrato con il precedente “City of god”, il regista brasiliano miscela thriller politico, dramma sentimentale e documentarismo, con un ottimo montaggio – talvolta frenetico ai limiti del videoclip, altre quasi animato da suggestioni oniriche – che asseconda tanto la naturalezza di movimento degli attori quanto i loro sguardi. Il cast, di massimo rispetto ed essenzialmente britannico [con l’eccezione certo non qualitativa di Danny Huston] porta a compimento le direttive di un autore che riesce a infondere personalità e originalità anche all’interno di generi altrove facilmente vittime di cliché estrinsecativi. Coinvolgente sul piano emotivo, ma non meno su quello visivo. Cammeo del sempre ottimo Pete Postlethwaite (posticipato dopo breve comparsa) sul finale che oltretutto ci risparmia didascalici colpi di pistola.


The Gunman

di Pierre Morel (2015)

con: Sean Penn, Jasmine Trinca, Javier Bardem, Idris Elba, Ray Winstone, etc.

Thriller su substrato drammatico, massacrato da critica e pubblico, ma che tuttavia regala nelle quasi due ore – come di consuetudine per Morel – sequenze action ottimamente girate (dalle sparatorie, agli inseguimenti, fino al corpo-a-corpo), ben oltre la media. Molto curata anche la fotografia, propensa a toni caldi capaci di mantenere anche altrove la continuità con le iniziali e parallele locations africane. Sean Penn offre un’insolita e destabilizzante performance nerboruta, l’italianissmia Trinca lanciata da Moretti seduce per fascino elegante e metacomunicazione, ma non è molto a suo agio con l’auto-doppiaggio, Bardem tende ad adagiarsi fluttuando sulla sua naturale picassiana cinégénie. Circoscrive questo triangolo amoroso una mediamente dignitosa attorialità secondaria che s’impegna a rendere scorrevole lo script. E lo fa palesando le ambizioni giallesche di tutto quello che sarebbe potuto essere il potenziale proprio di una sceneggiatura dedicata alle black operations, ma che non riesce pienamente a declinarne le molteplici sfumature socio-politiche, qui ridotte a poco saldi puntelli narrativi.

The Nice Guys

di Shane Black (2016)

con: Russel Crowe, Ryan Gosling, Angourie Rice, Margaret Qualley, etc.

Moderno noir fracassone girato da uno sceneggiatore decisamente portato per film d’azione (Arma Letale, Last Action Hero o Iron Man 3) che seguendo lo schema della coppia di personaggi poco affini, ma accomunati dallo stesso impiego maturano attraverso guai e necessità una sincera amicizia. Costante e pulsante la venatura comica che oscilla tra il demenziale (con punte di squallore) e surreali eccessi tutto sommato divertenti (si parodizza da “Hollywood Party” a “Black Dahlia”), scene action ben girate, commento sonoro rigorosamente seventies (incluso un momento diegetico con una cover di “September” degli Earth, Wind & Fire), settantiano come l’ambientazione perfettamente ricostruita, ma si arriva annaspando alla fine delle quasi due ore di girato non sempre coinvolgente. Discutibilmente affabile il personaggio interpretato dalla giovane Angourie Rice, mero elemento pacificatore e di coordinamento narrativo. Cammeo di Kim Basinger (questa volta l’incontro con Crowe a Los Angeles non è passionale come in “L.A. Confidential”) nel ruolo di doppiogiochista donna di potere.


The Orphanage

di Juan Antonio Bayona (2008)

con: Belen Rueda, Fernando Cayo, Roger Príncep, Mabel Rivera, etc.

Raro caso di pellicola in cui ho preferito il finale al resto del film: un epilogo frustrante, angosciante, ma pacificatorio. Forse un po’ ridondante nella coda-spiegone probabilmente inserito per i meno attenti, ma poco conta nell’economia del girato. Fin dall’incipit che ricorda la produzione di Del Toro si ha la percezione di quali saranno i topoi della storia: ghost movie di bambini, orfanotrofi, immaginazione come via di fuga, ma anche apertura percettiva, etc …Il tutto dichiarato horror, ma – ottima parentesi splatter dell’incidente stradale a parte – è più un thriller metafisico, girato, fotografato, interpretato bene, tutto formalmente sopra la media, ma anche tutto purtroppo già visto o derivativo. Fortunatamente, come accennato il twist finale riscatta il film dal rischio dell’anonimato. Cammeo della figlia di Chaplin nel ruolo costantemente bistrattato di una medium. Efficace la musica orchestrale di Velàzquez dal sapore “fairy” che sintetizza il substrato fanciullesco, ma oscuro del racconto. 


The Raid – Redenzione

di Gareth Evans (2011)

con: Iko Uwais, Yayan Ruhian, Joe Taslim, Ray Sahetapy, Pierre Gruno, etc.

Ottimo action movie dal ritmo febbrile fin dai primi minuti e che vede un graduale passaggio dalla carneficina a suon di pallottole (il cast principale è stato sottoposto a un vero e severo addestramento militare) al corpo a corpo/arma bianca principalmente imperniato sul Silat, di cui il protagonista Iko Uwais è ottimo conoscitore. Riprese effettuate con stile documentaristico (alla steady si preferisce il fig rig) tuttavia impreziosito da un color grading cupo e desaturato che accentua il senso di angustia delle location perfettamente realizzate in teatro di posa. L’eccessiva lunghezza del combattimento finale porta alla memoria la monotonia dei vecchi arcade game con il mostro di fine livello.


The Sadness

di Rob Jabbaz (2021)

con: Regina Lei, Berant Zhu, Tzu-Chiang Wang, Ying-Ru Chen, etc.

Uno di quei film che vedi, perché tutti te lo consigliano e tu con spirito socratico accantoni il fatto che chi l’ha fatto si nutra di zombie movies dalla mattina alla sera o, in alternativa, ha un passato di sedute dall’analista interrotte per poter comprare i blu ray 4K UHD dei suddetti. Sangue a ettolitri, per citare il vecchio Verdone e asticella delle efferatezze alzata rispetto alla media (non manca la citazione di “A Serbian Movie”, e avrei detto tutto). La trama di ambito pandemico-catastrofico con simpatiche, ma trite sferzate di satira politica lascia presto posto a un carnevale splatter pervaso da black humor che ha l’unico merito, in una produzione inflazionata come la succitata, di proporre una variante zombesca senziente, sadisticamente consapevole e sessualmente epicurea nel disinvolto assecondamento dei suoi istinti primordiali. Apprezzabile anche l’approccio old-school al comparto effettistico. Tolto questo, niente di nuovo al fosco orizzonte.


Trading Paint – Oltre la leggenda

di Karzan Kader (2019)

con: John Travolta, Michael Madsen, Shania Twain, Toby Sebastian, Rosabell Laurenti, etc.

Poco riuscito tentativo di mettere in scena la classica (e trita) dinamica di incomprensioni tra padre e figlio, con prevedibile attimo di ribellione e smarrimento di quest’ultimo e finale ritorno all’ovile. Nel frattempo si ricorda il dolore passato, si cerca di ricostruire / allargare la famiglia, si ricorda e si rinsalda attraverso un sogno comune il valore dell’amicizia, si affronta l’ipocrisia e spregiudicatezza dell’antagonista e soprattutto si cerca di entusiasmare lo spettatore con un film di corse automobilistiche emozionante quanto un giro di Gioco dell’oca.


Yes Man

di Peyton Reed (2008)

con: Jim Carrey, Zooey Deschanel, Bradley Cooper, Rhys Darby, Fionnula Flanagan, Terence Stamp, etc.

Commedia che trova Carrey – artista straordinario e sottovalutato – nella sua dimensione potenzialmente ideale, ovvero quella che dovrebbe consentire il dosaggio della sua comicità senza il parossismo demenziale degli esordi e lasciando spazio ad altre sfaccettature attoriali. Ridotto all’osso l’uso della sua proverbiale mimica facciale (es. il sogno del ritrovamento da morto o il ventriloquismo nel videonoleggio). Film tutto sommato divertente nei suoi eccessi anche grazie a un’attenta cura nella direzione degli attori comprimari e con gag quasi memorabili (es.la scena della moglie persiana). Il sano cinismo e il sottotesto di satira sociale (in primis il business del motivazionismo americano) si dissolve purtroppo apprestandosi alla fine a causa dell’incalzante virata sentimentale blockbusteriana. E certo non salva la situazione la fuga in moto in camice d’ospedale con le chiappe al vento in stile “Crank”. Asciutto, ma calzante il cammeo dell’austero Stamp.


Zombie contro Zombie – One Cut of the Dead

di Shin’ichirô Ueda (2017)

con: Takayuki Hamatsu, Yuzuki Akiyama, Kauzaki Nagaya, Harumi Shuhama, Manabu Hosoi, etc.

SE Truffaut e Romero avessero fatto un film insieme dopo una serata di bagordi nel magazzino de La Maison Emile Pernot questo sarebbe potuto essere il risultato. La prima mezz’ora sfiora i limiti dell’imbarazzo tra sorriso e incredulità…e le reiterate contre-plongées del fondoschiena della graziosa Yuzuki Akiyama. Poi tutto acquista significato e ciò che si era profilato come qualitativamente altalenante divertissement metacinematografico porta alla luce tra analessi, backstage e making of una brillante commedia splatter. Lo spettatore viene ripagato per lo scempio di piano sequenza low budget iniziale: il kitsch assume valore propedeutico, gli strafalcioni trovano giustificazione e le intuizioni fruitive ricevano una divertente risposta. A patto di non lasciarsi influenzare dal titolo (italiano) e dalla – va ribadito – funzionale parte iniziale, un film che può risultare una semplice, ma non semplicistica sorpresa.


© Articoli di Luigi Maria Mennella. Deposito n° 206543 presso il Patamu Registry. Tutti i diritti riservati.
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