Impiegati

di Pupi Avati (1985)

durata: 98’
produzione: Italia
cast: Claudio Botosso, Dario Parisini, Luca Barbareschi, Elena Sofia Ricci, Consuelo Ferrara, Gianni Musy, Cesare Barbetti, Giovanna Maldotti, Giovanna Maldotti, etc.
sceneggiatura: Pupi Avati, Antonio Avati, Cesare Bornazzini
fotografia: Pasquale Rachini
musica: Riz Ortolani

Riuscito esempio di film corale che – a parte pochissime eccezioni [es.gli straordinari doppiatori, ma anche attori Gianni Musy e Cesare Barbetti] – è interpretato da emergenti o quasi [Claudio Botosso, Dario Parisini, Elena Sofia Ricci + Barbareschi ai tempi attivo con un solo e poco noto film girato in America] e da perfetti sconosciuti. Si aggiunge il cammeo dello sfortunato Nik Novecento – dalla spontaneità quasi surreale, con cui contribuisce alla parte improvvisata dei dialoghi – e quello di Marcello Cesena, poi noto volto della serie comica “Sensualità a corte”. Il risultato finale ci consegna un’ottima prova di direzione attoriale in cui Avati, come d’altronde è solito fare, opta per una sorta di ‘assenza di giudizio’. Eventi e persone sono presentati, anzi si presentano autonomamente, vivendo di energia propria che alimenta l’intrecciarsi delle vicende. Anche in tal senso si giustifica il montaggio asciutto, volutamente depotenziato in quella che sarebbe potuta essere una snaturante ricostruzione artistica a posteriori del girato. Lo sguardo del regista lascia posto a quello degli attori, talvolta più comunicativi di quanto previsto dal copione verbale.
In seno alla narrazione maturano essenzialmente due dicotomie.
La prima è quella tra Dario e Luigi. Il primo, solare ed efebico, sorta di Peter Pan/James Dean, sensibile, apparentemente strafottente, ma dannatamente fragile [interpretato da Parisini, chitarrista dei Disciplinatha, Massimo Volume etc…morto pochi giorni fa (i miei appunti estemporanei sono del 16 giugno)]. Il secondo [Botosso] combattutto tra impiegato modello e dipendente sedotto dalla lascivia del ceto borghese, coacervo di creature corrotte, infedeli, omertose, false, volubil. Tutte prerogative facilmente rilevabili dallo spettatore, senza bisogno – riallacciandosi all’osservazione iniziale – di alcun sottolineatura registica. Talmente rilevabile e concreto da esercitare una forte fascinazione sul protagonista che deciderà di sguazzarci dentro fino alla conclusione del film. La seconda dicotomia riguarda più genericamente quella tra la figura ‘storica’ del giovane yuppie alle prese con un’emergente tecnocrazia (fa impressione oggi vedere un luogo deputato al calcolo…senza computer) e la vecchia classe lavorativa che cerca di sopravvivere. Non è infatti casuale la vicenda dei figli degli amici (Dario e Luigi) mandati ad abitare insieme o quella del capoufficio con famiglia [Musy] che perde la testa dietro una giovane impiegata avvenente [Maldotti], sorta di metafore di una velata speranza di alleanza darwiniana. Un’ennesima delusione sentimentale del protagonista principale può dunque diventare l’input per un rinnovato stato di salute (ma sarebbe più onesto parlare di “salvezza”), suggellando la propria guarigione utopistica nella nostalgia verso il proprio ufficio, rafforzata dal ricordo delle voci dei colleghi. Quasi con rimandi fantozziani si prende atto anche della condizione di ‘bravo ragazzo’, pur con i suoi limiti, a cui è normale che venga soffiata la ragazza su cui aveva messo sopra gli occhi (che salta sulla decappottabile altrui), a cui viene senza tanti giri di parole detto che di lui (leggi=“della sua fisicità”) non si può essere proprio gelosi e a cui vengono furbescamente rifilate dai colleghi le pratiche d’ufficio rognose. Completa il quadro umano generale la musica di Riz Ortolani perfetta per sottolineare la drammaticità di un ambiente squallido e privo di prospettive, dove si può solo evadere le proprie consapevolezze attraverso la mondanità o cercare aiuto nella complicità e gli affetti di quelli che saranno i compagni di lavoro per una vita.

A cura di Luigi Maria Mennella © 2022.


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