Domino

di Brian De Palma (2019)

durata: 89’
produzione: Danimarca/Francia/Italia/Belgio/Paesi Bassi/USA/Regno Unito
cast: Nikolaj Coster-Waldau, Carice van Houten, Guy Pearce, Eriq Ebouaney
sceneggiatura: Petter Skavian
fotografia: José Luis Alcaine
musica: Pino Donaggio

Si è detto di tutto e di più sull’ultima fatica (fatica in tutti i sensi) di De Palma, la cui gestazione ha avuto l’infausto epilogo di un film finanziato con modalità colletta e disconosciuto dall’autore a causa delle ingerenze in ambito produttivo e conseguente claudicazione qualitativa. Non è quindi un caso che il regista non abbia neppure partecipato al montaggio e parli di mezz’ora di tagli…e in effetti il film dura poco e finisce in maniera alquanto brusca e insoddisfacente (vendetta personale della protagonista a parte). Verrebbe quasi da pensare che fossero finiti i soldi per la pellicola se fossimo ancora ai tempi dell’analogico; e ironia della sorte vuole che le suggestive, ma indubbiamente retrò musiche di Donaggio, degne di un classico noir, in più di un’occasione mi abbiano piacevolmente proiettato in atmosfere degli anni ’40. Il discorso economico torna in gioco anche sul budget stringato concessogli e su stipendi non del tutto ricevuti dalla troupe…insomma un clima creativo decisamente avvelenato. Ciò nonostante resterebbe un film dignitoso in ragione di 3 scene di cui parlano tutti (troppo buoni…diciamo 2: le grondaie di casa mia si staccano con il peso di due piccioni…nel film reggono il peso di due uomini) e per il desiderio di aggiornamento di quelli che sono gli stilemi / punti di forza ben noti dell’autore (si pensi al lavoro fatto per l’attentato terroristico al festival del cinema o con quello tramite drone alla corrida) e che ci regalano momenti di tipico cinema depalmiano. Nonostante l’atmosfera / fotografia iniziale da serie televisiva tedesca pomeridiana (non aiutano la fisicità anonima degli interpreti), nonostante i frequenti MacGuffin hitchcockiani non sempre sviluppati (e qui si torna al discorso del montaggio…), nonostante i frequenti sbalzi d’efficacia nella messa in scena. Segue il corollario, indubbiamente affettivo di “comunque grande”. E poca ha importanza se l’autore in alcune occasioni citi se stesso (su tutti “Omicidio in diretta”): il suo peculiare utilizzo drammatico di un’ottica bifocale o la funzione narrativa diegetica o extradiegetica dei suoi split screen non stancheranno mai (almeno il sottoscritto) e quando intelligentemente, seppur con evidente spossatezza applicati sono sempre in grado di salvare tutto il salvabile. Certo…qui non c’è molto da salvare, a partire dalla performance attoriale migliore nelle terze file con l’aggravante di 89 minuti mozzati che restringono anche l’area di cernita, ma ho visto decisamente di peggio nell’ambito di produzioni sotto castrazione chimica come queste; e parliamoci francamente: De Palma dall’inizio di questo millennio non è più lo stesso. Forse aveva ragione Roy Batty quando parlava della luce che arde con il doppio dello splendore…

A cura di Luigi Maria Mennella © 2023.


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