Dexter: new blood

di Marcos Siega (2021/2022)

durata episodi: 42’/55’
produzione: USA
cast: Michale C.Hall, Clancy Brown, Julia Jones, Jack Alcott, Johnny Sequiah, Jennifer Carpenter, Alano Miller, etc
sceneggiatura: Clyde Phillips
fotografia: Hillary Fyfe Spera, Michael Watson
musica: Pat Irwin (+ oltre 40 brani di autori vari).

Attendere quasi dieci anni per un degno finale di una serie che ha fatto storia genera aspettative nel pubblico che non possono che portare a feedback diametralmente opposti. Da un lato sicuramente ci sarà la delusione dei tanti nerd che hanno letteralmente sguazzato nel tripudio di medicina e tecnologia forense che aveva accompagnato le precedenti stagioni; per non parlare di quanti nella cinica componente efferata dei delitti messi in scena hanno trovato appagamento per chissà quali junghiane proiezioni o elaborazioni catartiche della virtù ordinatrice platonica. E d’altronde la tensione di alcune indagini investigative così come la peculiare caratterizzazione dei molti personaggi coinvolti, tra buoni e cattivi ci ha incollato per ben 8 stagioni; episodi la cui costanza qualitativa è tutt’oggi oggetto di discussione per tanti. Poi arriva questa miniserie (in realtà 10 puntate anziché 12, con una durata media leggermente inferiore alla precedente…il “mini-“ non l’ho compreso). Ritorna anche lo sceneggiatore originale Clyde Phillips, ma con nuove idee – rischiose come qualsiasi cambiamento, certo – che portano il protagonista (anche produttore esecutivo) a virare totalmente verso altri lidi. Geografici, innanzitutto (un’immaginaria cittadina montana nello stato di New York di nome “Iron Lake”), ma anche climatici (il caldo-umido di Miami viene sostituito dal freddo e simbolico candore della neve). E sociali: tutti si conoscono, ma soprattutto si aiutano a vicenda, con sincera e costruttiva empatia. Complice anche la moltitudine di nativi americani – a partire dalla nuova compagna del protagonista [Julia Jones] – presente nel tessuto demografico. E nessun luogo è più lontano dalla patina di pregiudizio verso la “diversità” che avvolge la nominalmente emancipata metropoli: da mente libera quale sono non porto esempi per non cadere nello stesso errore di questa ridondante premura degli autori, che sicuramente hanno scritto nell’interesse del risultato finale. Forse è proprio questo che rende la fiducia qualcosa di sacro, come il cervo bianco la cui sorte fa riemergere l’ “Oscuro Passeggero” di Dexter, alias Jim Lindsay [Michael C.Hall, ovviamente, che compare anche nelle vesti dello straordinario, ma non celebre vocalist che è tra i titoli di coda di una delle puntate] in questa sua nuova possibile vita. Il ruolo di “Grillo Parlante” prima ricoperto dal padre Harry ora passa a un’almeno spiritualmente rediviva Debra [sempre la ex moglie Jennifer Carpenter]; con un livello di ingerenza che scema mano a mano che ci si avvicina al finale. Quello di villain di tutto rispetto (come profilo del personaggio, ma anche caratura attoriale) è affidato all’attore-doppiatore Clancy Brown, nel ruolo di un perfettamente bipolare serial killer e usurpatore di paternità. E c’è da dire che la prova attoriale complessivamente è ottima e priva di sbavature o di quei siparietti mainstream che caratterizzavano le stagioni precedenti; anche per l’aggiunta al cast di Jack Alcott. Impersonando il problematico e malinconico figlio abbandonato Harrison, riesce tra fisicità (l’eta scenica è inferiore a quella anagrafica), mimica facciale e impegno interpretativo a rendere perfettamente la purtroppo stereotipata figura dell’adolescente logorato da false convinzioni o verità sbiadite dal tempo. Cammeo di David Zayas [l’adorabile tenente Angel Batista] e lo straordinario John Lithgow [aka Trinity Killer, in una brevissima, ma scenograficamente complicata ricostruzione del suo ultimo fatidico omicidio].
Più che a una nuova stagione, ci troviamo di fronte a un unico, lungometraggio che predilige una scrittura più riflessiva, che prevedibilmente attiva. La stessa intenzionalità e capacità comportamentale è ridimensionata, grazie a un’accurata operazione di rugginea assuefazione alla routine della normalità. L’errore è possibile. L’errore si paga, anche quando dettato dall’amore e dall’abbandono a quella sopraccitata fiducia che tra gli uomini, di qualsiasi legame d’appartenenza non può più esistere nella società odierna per chi non è assimilato alla massa. Completano il quadro di un prodotto più maturo e ponderato, la scelta estetica di riprese anamorfiche che nel donare una confortevole aura vintage, tra l’incidentalità naturali di lens flare che rimandano ai casi inevitabili della vita delineano un’ellitticità che non può non far pensare al percorso del tempo. L’elongazione verticale dei soggetti che si allontanano dal piano focale diventano metafora di un individuo che si dissolve una volta persi di vista – nell’accettazione e martirio della solitudine – i suoi obiettivi di sopravvivenza al proprio dolore congenito.

A cura di Luigi Maria Mennella © 2022.


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