Dancer in the Dark

di Lars Von Trier (2000)

durata: 141’
produzione: VARI
cast: Björk, Catherine Deneuve, David Morse, Peter Stormare, Cara Seymour, Siobhan Fallon, Udo Kier, etc.
sceneggiatura: Lars Von Trier
fotografia: Robby Müller
musica: Björk, Richard Rodgers, Thom Yorke

L’onere di chiudere la “La trilogia del cuore d’oro” conferito a Bjork le è costato molto in termini di postumi da immedesimazione, al punto da sancire il suo distacco dalla già episodica partecipazione al mondo attoriale. Lo sviluppo di questo film, parzialmente musical ma – mi si perdoni l’epanalessi di sapore anglofono – drammaticamente drammatico ne evidenzia per capacità di trasmissione empatica le motivazioni. Il personaggio vissuto e portato in scena da Selma pur rasentando a momenti il più pervicace accanimento dickensiano del fato è genuino nella sua fatale generosità. Quello che Von Trier mette in scena, pur tra toni smorzanti ed evasivi (momenti di evasione percettiva della realtà e formale del Dogma 95) di coinvolgimento ritmico assimilabile ai primi Einstürzende Neubauten (si pensi all’incipit industrial / Concreto del ballo in fabbrica) e vocalizzi struggenti (inutile girarci attorno: Bjork renderebbe espressivo anche l’elenco telefonico) è la genesi di un inevitabile martirio che trova devastante amplificazione nell’apparentemente didascalico, ma <ATTENZIONE SPOILER> coinvolgente dilatazione degli ultimi istanti di vita della protagonista, soffocati artisticamente prima ancora che fisicamente. Donna che nella sceneggiatura della vita ha recitato il ruoto della persona forte, ma di fronte al palcoscenico della morte si trova costretta a togliersi la maschera mostrando tutta la sua vulnerabilità. Rigidamente erta e immobilizzata su una tavola di legno a guisa di femminea rivisitazione moderna del noto Nazareno. Poco razionali / realistiche forse certe re-azioni (es. episodio della cassetta valori), ma sicuramente da vivere nell’ottica di una disperata confusione mentale che – nuovamente – porta in primo piano l’amore per il prossimo [l’amico, pur ladro, confidente Bill/David Morse] rispetto a quello filiare (la rinuncia a un avvocato definibile tale pur di non inficiare il suo piano salvifico per il figlio), rispettando oltretutto la promessa fatta al suo carnefice. Analogamente il percorso verso la cecità, per quanto intuibile dalle prime problematiche lavorative, che tuttavia vira iperbolicamente verso l’handicap (si noti anche in generale la peculiare ricerca estetica nei tratti somatici dei protagonisti della trilogia e in questo caso specifico coadiuvati da una pesante montatura di occhiali) a mo’ di tramonto improvviso di qualsiasi buona speranza. Non ultimo il ‘tradimento’ del regista teatrale. Enigmatica la scrittura del personaggio di Kathy [Catherine Deneuve], tanto basilare quanto satellitare. Stormare, con il suo sguardo allucinato è ammansito da una collocazione attoriale di personaggio fondamentalmente fragile, pur nelle sue intenzioni patriarcali. Cammeo dell’attore feticcio Udo Kier nel ruolo del chirurgo oftalmico e di Joel Grey (Oscar nel “Cabaret” di Fosse) la cui testimonianza in tribunale decreta tecnicamente la condanna della protagonista. Forse prevedibile, ma struggente per la capacità di leva sull’ingiustizia umana. Ineluttabile come Eschilo, penetrante come Sofocle, dannatamente umano come Euripide.

A cura di Luigi Maria Mennella © 2023.


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