D-Tox

di Jim Gillespie (2002)

durata: 92’
produzione: USA
cast: Sylvester Stallone, Charles S.Dutton, Christopher Fulford, Polly Walker, Tom Berenger, Kris Kristofferson, Robert Patrick, etc
sceneggiatura:  Ron L. Brinkerhoff
fotografia: Dean Semler
musica: Tim Alverson, Steve Mirkovich

Classicissimo (leggi ’prevedibilissimo’) thriller che sguazza nel deja-vu negli iniziali 25 minuti. Tra flashback ed espressioni affettate non passa attimo che non ci si trovi di fronte a una situazione analoga di un film simile. “Simpatica” (nell’accezione della ‘risonanza’) l’idea del serial killer d’impronta darwiniana specializzato in poliziotti, fermamente convinto che la categoria costituisca la causa di un disequilibrio evolutivo nel mondo umano. Per un istante, a tragedia iniziale consumata, si ha la percezione di cominciare esattamente da dove era finito “Seven”. Sensazione che ritorna con la successiva comunicazione post-mortem di un corpo sotto le cui palpebre (ovvero lo scrigno dell’occhio/eye) il protagonista trova la scritta “I…C(see) U(you)” e ricollegandolo all’ultima discussione avuta con il killer identifica quello che è l’infiltrato della situazione. Ma facciamo un passo indietro. Poco prima che il film potesse sembrarci l’ennesimo copia&incolla assemblato sulla fisicità e vendibilità di Stallone, si era verificata una svolta decisiva: l’ambientazione di un austero, quasi ‘overlookiano’, ma asettico, glaciale (in tutti i sensi) ex-manicomio erto tra montagne nevose come luogo deputato alla catarsi di una decina di poliziotti e affini destinati a vedere la propria carriera distrutta dall’acool. Ironicamente a capo della ‘clinica’ qualcuno di cui consiglio di leggere l’interessante biografia: il cantautore Kris Kristofferson. Altro ruolo comprimario ricoperto da Robert Patrick, celebre per per il secondo “Die Hard”, ma forse di più per il secondo “Terminator”. All’esterno compare un corpo tra le acque di un lago ghiacciato. Parte la sensazione di MacGuffin. Un collega [Charles S.Dutton] del protagonista, nonostante il tempo micidiale sente l’irrefrenabile impulso di andare a pescare su ghiaccio. Più avanti viene trovato quel corpo. Okay: abbiamo capito… All’interno della struttura di disintossicazione intanto dal momento in cui le persone iniziano a cadere come mosche, nel dubbio dell’autenticità dei suicidi messi in scena, subentra purtroppo la noia più assoluta. E poco ha importanza cercare di capire chi ha fatto cosa o ha preso il posto di chi. Tutto diventa confuso e volutamente claustrofobico, inglobato nell’interessante fotografia di Semler che (d’altronde cominciando da ambientazioni notturne o interne-serali) finisce per avvolgere tutto nella cupezza assoluta, tra l’oscurità dell’edificio e la densa foschia della tormenta esterna. Mi sveglio esattamente a 10 minuti dalla fine, in tempo per godermi una doppia morte del villain di turno [Christopher Fulford], troppo logorroico e indisponente per meritarne una sola. Sly si libera finalmente dei propri demoni e di qualsiasi orpello iconografico glielo riporti alla mente (es. anello matrimoniale, precedentemente già declassato a cacciavite). E magari si rifarà anche una vita con l’affascinante infermiera [Polly Walker] che per lui aveva dimostrato particolare simpatia fin dall’inizio, perché no?

A cura di Luigi Maria Mennella © 2022.


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