Censor

di Prano Bailey-Bond (2021)

durata: 84’
produzione: Regno Unito
cast: Niamh Algar, Nicholas Burns, VIncent Franklin, Sophia La Porta, Michael Smiley, Adrian Schiller
sceneggiatura: Prano Bailey-Bond, Anthony Fletcher
fotografia: Annika Summerson
musica: Emilie Levienaise-Farrouch + altri (Oswald d’Andréa, John Power, etc)

L’esordio alla regia della Bailey-Bond soffre della decontestualizzazione imposta dai quei confini, di per sé coercitivi per natura estetica e rappresentativa, che essa per prima ha adottato per il girato. C’è da aggiungere con piena e rispettabile cognizione di causa. Da un lato infatti la ricostruzione dell’Inghilterra imbrigliata nelle redini conformatrici dell’Iron Lady è piacevolmente maniacale: dalla fotografia, ai props fino alla colonna sonora della compositrice Emilie Levienaise-Farrouch (che ‘cita’ “Suspira” nel main theme). Fortemente orientata all’utilizzo dei sintetizzatori con timbriche del periodo, quest’ultima conduce lo spettatore a un ulteriore livello di penetrazione nel corpo narrativo. Tutto questo non può che fare la felicità nerdistica / retro-geek di quanti resteranno inebriati dall’aroma di analogico che la messa in scena suggerisce, quasi sinesteticamente. Dall’altro una fedeltà anche alla tipologia di sviluppo narrativo di allora, a certi ritmi di montaggio di un periodo a cui non siamo più percettivamente abituati e che in un contesto revivalistico richiede sempre un’operazione di attenta scrittura almeno della sceneggiatura; e il risultato purtroppo propende verso il benzodiazepinico. A poco serve la giustificazione di una ponderata, graduale presa di coscienza in merito al proprio passato a opera della protagonista Enid [ Niamh Algar]. Perfettamente calata – come d’altronde il suo mestiere di censore non potrebbe non suggerire scenicamente – nel ruolo che vede totalmente repressa la propria femminilità: stereotipati, ma efficaci in tal senso il suo livello di socialità, prossemica e ovviamente non restano esclusi abbigliamento e acconciatura. E proprio i capelli costantemente raccolti e liberati solo parallelamente alla riacquisizione del proprio istinto primordiale costituiscono una metafora che non credo sia bisogno approfondire. Il tempo di una registicamente imbarazzante colluttazione mortale (senza spoilerare, il cui verismo è affidato ingenuamente a un primo piano laterale…ma forse anche questa è una citazione dello stile del periodo) e il film si avvia verso l’ultima mezzora risolutiva. Lynchiana nel mal riuscito tentativo di sospensione onirica, terribilmente (ma presumibilmente volutamente) kitsch nel connubio simbiotico metacinematografico. Cammeo dell’inquietante Guillaume Delaunay, meglio conosciuto su suolo nostrano per il ruolo dell’orco nel garroniano “Il racconto dei racconti”. Giunge infine la parte più apprezzabile: il finale. Appare per l’ultima volta la coppia genitoriale, emblema di un cinico desiderio di de-responsabilizzazione e ritorno alla “normalità” (più volte confermato anche in sede dialogica) e raffigurata sagacemente nelle frequenti composizioni delle figure umane degne di Grant Wood. Ecco che la precedente fotografia plumbea vira verso una soluzione a dir poco lisergica. La trama sonora di Blanck Mass debitrice verso le tipiche sonorità delle string machines accompagna Enid verso una delirante rimozione selettiva. E improvvisamente si delinea la significazione alla base della specifica scelta e dedizione al proprio impiego lavorativo della protagonista: unico luogo possibile per una sublimazione attraverso una ricostruzione moralmente accettabile della Settima Arte e una labilità di confine tra lapsus e accurati tagli di nastro vhs. Partono i titoli di coda sulle note di un’apertura lirico-orchestrale di Oswald d’Andréa connotata da un incedere quasi western ed efficace nel contrasto della sua solarità.

Nota aggiuntiva: tra le tante violente pellicole horror sotto censura (per lo più statunitensi e italiane) – oltretutto destinate al mercato home video – e che fanno riflettere sull’auto-incensamento socio-educativo del censore e l’ovvia aleatorietà (strumentalizzata nel film) del proprio coinvolgimento nel tessuto comportamentale generazionale, “The Driller Killer” di Abel Ferrara: primo lungometraggio, ma ‘biograficamente’ il secondo: con lo pseudonimo di Jimmy Boy, Ferrara aveva infatti girato qualche anno prima il porno dal titolo “9 lives of a wet pussy” (esattamente la gattina che la ragazza in foto tiene tra le gambe / comprenez-vous le double sens?). Considerata l’ottica thatcheriana del rapporto di consequenzialità visione-azione, non voglio neanche sapere se avesse previsto chissà quale repressione per arrestare un’ondata di spasmodica fornicazione di massa.
Per chi desidera scoprire quali sono gli storici 72 VIDEO NASTIES bannati dai primi anni 80 nel Regno Unito, è presente a questo LINK (IMDb) un esauriente elenco, ricco di aneddoti. Dal 2001 comunque, fortunatamente, la lista è diventata obsoleta e nel mercato home video sono state nuovamente commercializzate le versioni integrali delle malcapitate pellicole.

A cura di Luigi Maria Mennella © 2022.


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