Ariaferma

di Leonardo Di Costanzo (2021)

Totalmente controcorrente e a debita distanza dell’effetto galvanizzante, ma stilisticamente connotato del genere, Di Costanzo propone un prison movie senza violenza dove non si lotta per la sopravvivenza o il potere, ma per la graduale conquista di una sacrosanta dignità umana attraverso la ponderazione della fiducia.

durata: 117′
produzione: Italia
cast: Toni Servillo, Silvio Orlando, Fabrizio Ferracane, Salvatore Striano, Pietro Giuliano, Nicola Sechi, etc.
sceneggiatura: Leonardo Di Costanzo, Bruno Oliviero, Valia Santella
fotografia: Luca Bigazzi
musica: Pasquale Scialò + brani di Steve Reich, Vasiliki Anastasiou ed Ermis Michail

Il microcosmo di una fatiscente prigione ottocentesca sarda, arroccata su un monte che – mi si perdoni la mia consueta pareidolia – sembra fatto di teschi e prossima alla chiusura apre lo scenario a un luogo dove guardie e detenuti si trovano a dover affrontare nuovi protocolli esistenziali. Chiusura che il Sistema riesce continuamente a procrastinare. Godot ha qui una fisionomia delineata, ma l’essenza drammaturgica non muta…

Un luogo sospeso nel tempo e condannato dallo spazio, senza nessuna apertura narrativa verso un mondo esterno che assurge quasi a entità astratta distillatrice di speranza. Una nuova esistenza ufficialmente temporanea da riscrivere insieme, nell’eterogeneità e in modo più o meno consapevole.
Da un lato le prime, guidate dal collega più anziano in carica, Gaetano Gargiulo [Toni Servillo], desideroso di dare una dignitosa conclusione alla sua ‘missione’ (ma forse carriera), sono costantemente spronati a far leva sul buon senso, al di là degli ordini ufficiali. La sua umanità si evince fin dal racconto di caccia iniziale, nel quale ricorda come da bambino soccorse una tortora a cui aveva sparato, ma probabilmente anche con navigata esitazione la dosa saggiamente. E lo fa con la consapevolezza di vivere in un ambiente dove – come si suol dire – fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio.
I suoi metodi sono infatti considerati poco adeguati e rischiosi, soprattutto dal collega Coletti [Fabrizio Ferracane, altro attore di sostanza teatrale che molti ricorderanno per l’ottima prova in “Anime Nere” di Munzi nel 2014], ma il suo intento dichiarato è quello di evitare una rivolta.

Dall’altro i secondi, che più che singoli individui con le solite romanzesche storie alle spalle costituiscono una sorta di coro che intona i propri bisogni primari di esseri umani e risponde spesso alle direttive orchestrali di Carmine Lagioia [Silvio Orlando], temuto camorrista che nella sua astuzia sembra quasi richiamare ‘O Professore (al secolo Raffaele Cutolo), ma infinitamente più umano; e in questa fase quasi catartica di fine pena premuroso verso il prossimo. Una premura – tanto verso un giovane disadattato che ha fatto una stupidaggine di troppo, rischiando l’ergastolo [Fantaccini/Pietro Giuliano], quanto verso i propri compagni per i quali si offre di cucinare quando parte lo sciopero della fame – che una volta rivolta verso il proprio intransigente carceriere Gaetano, riuscirà entro la fine del film a trasformarsi in fiducia reciproca e abbattimento delle barriere psicologiche create dalla divisa. Come reciproco pare un ricordo barlume di infanzia trascorsa nello stesso quartiere che porterà Gaetano per la prima volta a empatizzare davvero e interagire fisicamente con Carmine in una semplice ma simbolica attività di raccolta di verdure per i detenuti, rimasti quasi senza cena a causa di un ennesimo problema logistico nelle forniture.

La tensione iniziale, corroborata tanto da inquadrature strategiche di potenziali MacGuffin (es. coltelli) che dall’interpretazione poco rassicurante di Orlando (che oltretutto con i propri sguardi di sbieco o movimenti sospetti alimenta il lecito dubbio che tanta buona predisposizione d’animo possa nascondere chissà quale secondo fine), muta nel corso della narrazione; e trova il suo acmè di pacifica fratellanza nella cena durante un black-out tenuta da Gargiulo con i dodici detenuti: difficile non pensare ai dodici apostoli…così come con il detestato Arzano [Nicola Sechi], a una sorta di Giuda emarginato dalla tavolata. I tavoli delle celle vengono uniti, si scherza, salta fuori perfino una bottiglia di vino (che irreprensibilmente Gargiulo non berrà in quanto in servizio). Il buio schiarito solo da tre lampade sembra quasi dipingere attraverso la mano esperta del pluripremiato DOP Bigazzi la metafora di uno sguardo pacato all’interno dell’ombra che cala sulle convenzioni e convinzioni sociali. Impietoso in tal senso il cambio di atteggiamento delle guardie appena torna la luce, come se tutti dovessero ripristinare lo status quo imposto dalla società e dalle sue leggi: i tavoli vanno separati, i detenuti devono tornare al loro posto, i ruoli devono esser ristabiliti. Un volutamente snervante brano percussivo ottenuto dal solo battito di quattro mani [“Clapping Music” scritto nel 1972 da Steve Reich, ben noto musicista tra i pionieri del minimalismo] e che richiama quello di poco precedente dei detenuti durante la cena rafforza questa sensazione.

Peculiare in tal senso l’utilizzo della musica che a momenti di soli(psi)smo canoro che ricorda le atmosfere di “Fuga di mezzanotte” e passaggi ‘concreti’ lascia ampio spazio a un’espressione prettamente ritmica (interessante scelta già optata anche se in modo diegetico da Inarritu per il suo “Birdman”), quasi a voler sottolineare da un lato il poco fertile terreno per la melodia in un luogo così spoglio di vitalità, ma dall’altro anche richiamare o affiancare il ruolo primario delle voci e delle vite umane che le alimentano. E sarà una cruda ma sensuale voce femminile [della cipriota Vasiliki Anastasiou] ad accompagnare la scena finale, mentre la camera vaga tra le celle, scrutando nelle espressioni perplesse dei detenuti, ancora incerti sulla propria sorte, dimenticati dallo Stato, ma ricordati dalla burocrazia; abbandonati a sé stessi in un’attesa iniziata con il film, accuratamente alimentata nello sviluppo narrativo, ma probabilmente destinata a non arrestarsi oltre il confine immaginario dei titoli di coda. Lo sguardo finale di Gargiulo sancisce la fondatezza di questa preoccupazione.

Parallelamente scorre la vicenda del sopraccitato Fantaccini il primo a tornare / ripopolare un carcere che doveva invece svuotarsi e il primo ad essere trasferito dopo l’aggravamento della sua posizione giuridica, nella fievole speranza di un riscatto esistenziale dopo un’infanzia in casa famiglia. La compassionevole assistenza ad Arzano – detestato da tutti per abuso su minori – tra gestualità francescana che richiama la ‘Lavanda dei piedi’ e commento sonoro liturgico alimentano nello spettatore questa speranza.

Curiosità di casting: Salvatore Striano è stato davvero un galeotto, con passato da latitante all’estero e poi estradato a Rebibbia. Già appassionatosi di teatro in carcere, debutta sul grande schermo con “Gomorra”. Analogamente a quanto fatto sempre da Garrone con l’ex-camorrista Aniello Arena (formatosi nella Compagnia della Fortezza del carcere di Volterra) per “Reality”, non appena ottenne il regime di semilibertà.

Visto su Prime Video.

LINK per visionarlo.

A cura di Luigi Maria Mennella © 2022.


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