Archive 81 – Universi alternativi

di R.Thomas, A.Moorhead, J.Benson, H.al-Mansour (serie, 2022)

Senza troppo stravolgere la diffusa regola della ‘minestra allungata’ (o approccio loquace allo sviluppo narrativo, se vogliamo essere meno cinici), tipica purtroppo di molte serie, “Archive 81” si presenta comunque come un ottimo prodotto di respiro televisivo dove generi tradizionalmente distanti trovano un’originale forma di connubio espressivo.

durata: 426
produzione: USA
cast: Mamoudou Athie, Dina Shihabi,Evan Jonigkeit, Julia Chan, Kristin Griffith, Ariana Neal, Matt McGorry, Martin Donovan, Ariana Neal
sceneggiatura: vari (Rebecca Sonnenshine, Michael Narducci, Evan Bleiweiss , Bobak Esfarjani, Helen Leigh)
fotografia: vari
musica: Ben Salisbury e Geoff Barrow

Su tutto emerge il connubio tra l’aspetto esoterico, di antico retaggio culturale e la componente tecnologica di conquista umana relativamente recente. E lo stretto legame tra psicologia e parapsicologia suggella un ulteriore valore aggiunto.
Le premesse sono più che buone. E’ questa dualità espressiva che dona alla storia un fascino peculiare capace di risvegliare paure ancestrali da un lato e inquietudine moderna dall’altro, quasi a voler sottolineare che ciò che è sempre stato metafisico è destinato a restare oltre la dimensione spazio-temporale aperta allo scibile umano; al di là / aldilà delle proprie percezioni.
Ma, complice forse la mancanza di carisma dell’interprete principale, Dan Turner [uno stralunato Mamoudou Athie con un bagaglio espressivo che fa concorrenza al buon vecchio Clint… e incapace di variegare un ruolo indubbiamente castrante: restaurare ‘alla buona’ nastri, guardarli, turbarsi e capire. Stop], il coinvolgimento drammaturgico non si assesta su un’andatura costante.

Non mancano momenti di ridondanza narrativa che privano gli episodi di quel mordente che ha costituito la fortuna di altre serie (la prima che mi sovviene a caso “Il metodo Kominsky”) che ci hanno portato talvolta a dire “ancora un’altra e poi continuo domani”…per poi ritrovarsi all’alba ancora lì incollati alla tv, in pieno stile “Videodrome”. E sicuramente il capolavoro cronenberghiano, come ovviamente i riferimenti polanskiani alla setta condominiale di “Rosemary’s Baby” hanno un ruolo preponderante nell’intelaiatura stilistica della serie; analogamente a tutto quello che la memoria dello spettatore può associare al concetto di found footage. C’è posto anche la componente snuff, a dire il vero di originale stampo vintage: un’intera puntata è dedicata a questo evento, iperbole narrativa dal blando passaggio agli anni ’20, che per un attimo ci dona la tutto sommato piacevole sensazione di esser passati a un altro film prima di tornare più rilassati alla conclusione della storia.

Conclusione che, quasi a voler rimediare ad alcuni buchi di sceneggiatura non ci priva neanche di una sorta di ‘spiegone’ a opera del migliore amico di Dan, Mark Higgings [Matt McGorry / già compagno di viaggio nel precedente “The Sommelier” di Prentice Penny], ma di cui sinceramente si faceva a meno, visto che restano comunque lacunosi alcuni passaggi. E non mi riferisco a misteriosi dubbi interpretativi alimentati nello spettatore, perché complessivamente lo script è avvincente e ben delineato, e neanche troppo cervellotico come può inizialmente sembrare, ma semplicemente perché accadono eventi che non troverebbero corrispondenza empirica o di buon senso nella vita reale. I primi che mi sovvengono: il datore di lavoro di Dan, Virgil Davenport [un interessante Martin Donovan che in più occasioni mi ha ricordato per tratti somatici ed espressività l’attore feticcio tarantiniano Michael Madsen] che prova a uccidere Dan senza accertarsi che esistano altre copie di quel video-rivelazione tanto importante e compromettente per la sua famiglia. Oppure Dan che decide di liberare Melody [la graziosa Dina Shihabi che in qualsiasi situazione pensa di evitarsi cazzotti e pallottole semplicemente perché ha una telecamera…evidentemente persuasa che sia collegata tramite satellitare con l’FBI…]; e ancora Dan che si appresta a invocare il demone leggendo un testo in una lingua e variante a lui sconosciuta (estone arcaico?).

O la signora Cassandra [un’inquietante Kristin Griffith] che – a seduta spiritica ultimata – fa domande alla medium, sua abituale ospite, ma totalmente dimentica che tradizionalmente si parla di corpi posseduti da entità che non lasciano in essi memoria di quanto proferito. Grossi dubbi anche sull’utilizzo iniziale di ben due diapason (oltretutto di chiara fattura arcaica, ma ricordo d’invenzione solo settecentesca) e comunque – licenze artistiche a parte – sul senso di ‘accordare’ il proprio canto (che non mi pare di ricordare diplofonico) su due frequenze palesemente diverse e che richiamano drammaticamente il suono di un ascensore newyorkese… E sorvoliamo sulle pareti di Kharonite sintetica per compensare il fatto che il prossimo passaggio della cometa avverrà in un altro momento storico, il livello di affilatezza delle unghie della medium tali da consentirle di strapparsi praticamente la faccia o il fatto che dopo 10 giorni di semicoma Dan si risvegli in ospedale esattamente con lo stesso taglio di capelli e barba…

La parte dei restauri analogici dei nastri, che poteva avere uno stimolante potenziale visivo e che comunque come verrà sottolineato è il nodo cruciale di tutta la storia (il nastro che torna a vivere assottiglia il confine tra le due dimensioni parallele, permettendo il passaggio) è trattata in modo molto superficiale: cambio di case, una pulitina con un po’ di prodotto specifico (quale? Senza essere un nerd, qualcuno non sarebbe stato interessato a saperlo?!) e fine della storia. Non dico di proporre una sequenza magistrale come quella della stampa delle banconote false di Friedkin in “Vivere e morire a Los Angeles”, ma qui siamo decisamente agli antipodi. Peccato… Come è un peccato che si sia optato per una rappresentazione prosaica del demone Kaelago, tanto affascinante nella sua valenza iconografica e geosofica con cui ci turbò il (di nuovo friedkiniano) Pazuzu ne “L’Esorcista”, quanto drammaticamente insulso nella sua somiglianza a un Predator alopecico con un’improbabile voce animale digitalizzata. E sorvolo sulle sue apparizioni subliminali precedenti, perché confesso in un primo momento di aver ravvisato addirittura una sorta di marziano…

Altra nota negativa l’impatto visivo e l’entrata in scena (manca solo un “oooooh” con mani basculanti di sottofondo…) della – come vogliamo definirla? – colonna energetica che cala ogni volta, alla fine del rituale / sacrificio umano sul sacerdote o sacerdotessa di turno. No, pietà: questo genere di scelte registiche a mio avviso uccide qualsiasi cosa; in un genere come l’horror che oltretutto diventa sempre più affaticato – e qui si aprirebbe un dibattito sulle motivazioni – nel suo scopo primario, tanto si è inferocito il genere umano e la cronaca esplicita che di esso effettuano i media.

Per il resto, come accennato, le idee non mancano e si appoggiano su elementi scenici suggestivi: in primis la muffa aka “stardust” che cresce con uno sviluppo circolare/floreale come frutto di fede e devozione, ma ha effetti neurotossici, la kharonite ricavata dall’originale cometa gemella di Caronte, il tempio finale dove architettura antica e integrazioni informatiche trovano equilibrio, la nenia/preghiera ansimante della setta davanti alla statua di pietra della divinità (chiara la citazione, una delle tante, del lovecraftiano “Il richiamo di Chtulhu”) chiusa in un mobiletto, la collezione d’arte degli artisti catalizzatori spirituali e la stessa tempera nera ‘rivelatrice’, ma foriera di pazzia donata alla migliore amica della protagonista, Annabelle [Julia Chan]. O infine l’architettura parallela del campus di ricerca montano, celata da pareti di cartongesso (chiaro richiamo ai misteri dell’Oltremondo) oppure la rappresentazione della fotografia spiritica, poi evolutasi in pellicola cinematografica.
L’estetica vintage, ma tecnologica è rispettata anche dalla scelta di un commento sonoro e sound design realizzato con sintetizzatori di timbrica analogica appartenente al secolo scorso.
Finale aperto con Dan che si ritrova intrappolato nel passato di Dina (come esplicitato dalla morte di Kurt Cobain riportata dal telegiornale) e forse inutilmente rimarcato dal World Trade Center riflesso nella finestra adiacente a quella da cui si affaccia Dan e in anticipo di circa 7 anni dal crollo delle Torri Gemelle.

Piccola nota sulla genesi: la serie è ispirata a un podcast omonimo (e non a caso è un podcast quello che dirige il miglior amico e quasi angelo custode di Dan).
Un ultimo dubbio: l’occultista Samuel Spare [Evan Jonigkeit], docente dalla fine pronuncia – per il cui nome tra l’altro dubito che gli sceneggiatori si siano fatti sanguinare le tempie (cognome preso da Austin Osman? Poi scopriamo chiamarsi invece Alistair con un chiaro richiamo ad Aleister Crowley…) – durante il rituale d’evocazione non è più doppiato, ed ha la zeppola! PERCHE’?!?

Concludendo, una serie assolutamente da vedere. Peccato non faccia paura. Nonostante la produzione di James Wan (Saw, Insidious, Conjuring e altri gioiellini…). Nonostante ogni qual volta ci sia da spaventarsi gli attori facciano “aaah!”; talvolta quasi in anticipo o sempre con un’enfasi non altezza di ciò che sarebbe oggettivamente motivo di terrore.

La serie è arrivata in Italia il 14 gennaio di quest’anno e consta di 8 episodi,
con una durata inferiore a 1 ora.

E possibile visionarla su Netflix, a questo LINK.

A cura di Luigi Maria Mennella © 2022.


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