A ciascuno il suo

di Elio Petri (1967)

Fresco di restauro, un piccolo capolavoro del giallo italiano ispirato all’omonimo romanzo poliziesco di Leonardo Sciascia. Una piccolezza INVERO dettata dall’intima e omertosa circoscrizione degli eventi più che dallo spessore della pellicola che a distanza di anni e visioni si conferma da un lato pregevole per dinamismo registico e originale sviluppo della sceneggiatura e dall’altro drammaticamente perspicace nell’intuizione di quelli che erano i problemi alla base della nascita del centro-sinistra nell’Italia degli anni 60.

durata: 99’
produzione: Italia
cast: Gian Maria Volontè, Irene Papas, Gabriele Ferzetti, Laura Nucci, Salvo Randone, Luigi Pistilli, Leopoldo Trieste
sceneggiatura: Elio Petri, Ugo Pirro
fotografia: Luigi Kuveiller
musica: Luis Bacalov

Giallo a partire dai dettagli estetici (il font della titolazione iniziale, la propensione cromatica della fotografia e oggi la tinta del packaging)…e ovviamente nella natura intrinseca della narrazione.
Al di là delle sporadiche fughe regionali, la sensazione di un ambiente sociale chiuso si avverte fin da subito, nel drastico passaggio dalle ariose riprese in elicottero al prosieguo delle inquadrature che accompagneranno le vicende una volta giunti all’ atterraggio in una sorta di microcosmo paesano.
Da questo momento la telecamera assumerà i connotati di un demiurgico sguardo sugli eventi: una sorta di secondo “Osservatore Romano” (il primo è il quotidiano ecclesiastico usato nel film per i ritagli di giornale delle lettere anonime). N.B. il titolo deriva appunto dalla traduzione del latino “unicuique suum” che si legge sul retro del ritaglio di giornale, elemento chiave per la risoluzione, inutile invero, del caso.

Occhio del regista e quindi dello spettatore, ma anche del protagonista che sospettoso indaga nella vita altrui. Sguardo privilegiato che abbonda di frequenti zoomate, con uno stile che nell’iperrealismo super asciutto di oggi sarebbe snobbato dai più, indugiando sui dettagli con un’attenzione tanto investigativa quanto morale, fatalmente morale… portando poi lo spettatore a realizzare quanto tutto rappresenti una magistrale messa in scena che celebra l’arte dell’impunità in una società che ne ha fatto meccanismo sistemico di controllo. Società e costumi che nella collusione tra Chiesa connivente dietro le quinte, politica matrice e motrice di azione e mafia esecutoria diventano paradigma di un torbido acquario politico dove i pesci più piccoli o meno astuti sono drammaticamente destinati a essere mangiati da quelli più grandi.

Uno scambio di battute all’inizio… – “(…) e se i tre arrestati fossero analfabeti? Perché sono analfabeti!…” – “Impareranno in carcere!” – sarebbe più che sufficiente a farci comprendere la summa di un’ambientazione culturale dove l’apparenza forzata e di comodo sovrasta l’importanza della verità; ma anche proseguendo è palese quanto non ci sia una riga fuori posto nella sceneggiatura che accompagna l’intero superlativo girato. Certo, talvolta intuibile, ma d’altro canto con nessun esito prevedibile. O, meglio, l’inganno – del cuore e della mente – è dietro l’angolo e qualsiasi valore etico e sentimentale viene immolato sull’altare di un cinico quadro sociale che finirà per farsi beffa del protagonista principale. Paolo Laurana [Gian Maria Volontè all’inizio dell’inossidabile collaborazione con Petri] è dunque martire di un duplice amore: verso la donna sbagliata che non potrà mai appartenergli e verso un profondo senso di giustizia nel luogo e tempo sbagliato. Uomo innamorato che si troverà prima tradito nelle proprie romantiche aspettative e infine nella dignità, diluendo la propria memoria nella “cretinaggine” attribuitagli dalla comunità a fine pellicola.

Una lotta la sua destinata al fallimento fin dall’inizio. La consistenza del suo idealismo palesemente democratico va di pari passo con l’inopportunità della propria trasparenza e difficoltà integrativa, tanto in un contesto storico-politico dove già Sciascia aveva riscontrato le problematiche affermative di una sinistra strutturata e coesa, quanto in quello geografico del suo vivere in un luogo a cui non appartiene per forma mentis, non trovando neanche il dovuto sostegno motivazionale nella laicità che conta: parlando con un amico deputato [cammeo di Leopoldo Trieste]: ”Ma perché non andiamo io e tu alla Polizia?” – “Ah, io e tu di estrema sinistra che andiamo alla polizia…così mi accusano di speculazione politica…ma tu voti sempre il partito?” – “Sì, ma mi diventa sempre più difficile…”.

E tantomeno gli resta utile il confronto con un clero che oscilla tra la facile condanna all’inferno (es. l’arciprete di paese, zio della fatale coppia del film che giudica la condotta morale del farmacista strategicamente coinvolto nell’assassinio iniziale) e la – neanche troppo celatamente – discutibile vocazione del curato [Mario Scaccia]. Quest’ultimo sicuramente più collaborativo con Laurana nella sua investigazione privata, si delinea come un appassionato di oggetti sacri di valore recuperati nel contado e che rivende a facoltosi collezionisti locali; e senza troppa esitazione confessa: “In qualcosa credo. Forse in troppe. Per i tempi che corrono…”.
Breve apparizione di Luigi Pistilli, ottimo attore teatrale brechtiano nel ruolo del farmacista donnaiolo.

Analogamente ambiguo è il comportamento dell’Avvocato Rosello [Gabriele Ferzetti], pubblicamente magnanimo difensore di persone ingiustamente accusate del famoso omicidio (poi scopriremo essere tutto parte di un macchiavellico piano), ma anche mandante dell’omicidio dell’amico Dottor Roscio, con la cui moglie e cugina aveva una relazione extraconiugale da lungo tempo. Scoperto dal marito stesso e ricattato di esser smascherato in merito ai suoi intrallazzi con politici corrotti si appoggerà proprio a loro per preservare la comune impunità. Da notare inoltre che Rosello avrebbe anche sposato per primo la cugina se avesse avuto la dispensa papale di matrimonio tra consanguinei e di fronte a questo impedimento burocratico, in un ambiente dove l’extralegalità è fondamentalmente tollerata ristabilisce quindi lo status quo forte del nuovo potere conferitogli dalle suddette amicizie.
Il mandato di morte diventa poi duplice nel momento in cui Laurana decide di voltare lo sguardo verso la parte sbagliata in un paese dove tutti girano la testa dalla parte ‘giusta’, sia per profonda onestà che per amore.

Ed è quindi figura emblematica di questo intreccio di parvenze e intenti, la suddetta cugina dell’avvocato, Luisa Roscio: un’Irene Papas di una bellezza tanto antica nei tratti somatici quanto moderna nel contrasto tra l’abbigliamento vedovile e trasparenze di tessuti che lasciano trapelare una matriarcale sensualità per cui Laurana si tormenta di desiderio.
E su di essa che si basa il duplice motore passionale del protagonista che da un lato la crede alleata nella ricerca della verità in merito all’uccisione di suo marito e dall’altro l’anela con uno struggimento di meravigliosa resa visiva e trasmissione empatica allo spettatore: uno sguardo al letto matrimoniale del marito defunto, quasi a sognare cosa possa essere stato l’aver goduto di quel privilegio; altri sguardi fugaci a lembi della sua pelle avvolti in luttuoso nylon nero, parti casuali di un tutto bramato. E poi ancora l’ansia nel condividere l’ossigeno di uno stesso ambiente per la difficoltà di non poter respirare insieme e vicini come vorrebbe; così come le labbra che quasi baciano il veicolo di lei che lo abbandona al proprio destino, a guisa di fredda estensione del suo corpo fuggevole, dopo un naufragato tentativo di possederla in un momento di abbandono sulla sabbia.

Immagine quest’ultima usata anche per la locandina originale che è stata causa di una lunga trafila burocratica in termini di censura. Pura poesia… coltivata fin dai primi attimi di contatto visivo e sfioramenti epiteliali nel film, che lasciano nello spettatore la speranza di un risvolto in favore di un amore che sembra sedimentato e avrebbe solo bisogno di trovare la giusta esplicazione…ma che l’amarezza nella constatazione del tradimento condanna a un’impietosa fine.

Ben riuscita in tal senso anche la scena in cui lui realizza in uno stretto ma intenso lasso di tempo di esser stato lasciato sulla spiaggia in balia dei sicari che prima lo rapiscono e infine lo conducono nella ‘classica’ cava mafiosa di marmo dove verrà fatto esplodere per nasconderne le tracce.

Cammeo anche di Salvo Randone nel ruolo del padre del dottore ucciso e quindi suocero di Luisa Roscio: personaggio ironicamente rappresentato come medico oculista che ha perso in vecchiaia la vista, ma non la lungimiranza (di Luisa non si è mai fidato) ed è a Laurana che consegna il famoso taccuino di appunti compromettenti sull’attività di Rosello che suo figlio custodiva a casa.

Da lì al finale del matrimonio della Roscio e Rosello (complici non solo d’amore ma anche di crimine), si passa in una veloce carrellata sulla comunità che continua la propria esistenza di vacui sorrisi, pettegolezzi e spavalde maldicenze; come le sopracitate beffeggiature verso Laurana, ‘cretino’ che non aveva capito il ‘capolavoro’ ideato a sua insaputa: le lettere anonime verso il Dottor Roscio erano solo un pretesto per giustificare il duplice omicidio durante una battuta di caccia.
Tra parentesi, con una certa auto-ironia Laurana sembra quasi porsi come l’alter ego dello stesso Sciascia, del suo intellettualismo pessimista (già emerso nel precedente “Il giorno della civetta” di cui Damiano Damiani girò un adattamento, dove nuovamente la sinistra, nello specifico un sindacalista, soccombe di fronte alla ‘Piovra’…), ma attivo e quindi costruttivo nella sua denuncia.

Epilogo che trova infine il suo perfezionamento espressivo nelle silhouette dei partecipanti al matrimonio: camminano sempre più metaforicamente vicini, salendo e scendendo scalini simbolici oltre che architettonici fino a perdersi in un’unica, connivente massa scura che porta al nero di fine pellicola che, contestualizzato all’ambiente in cui si immergono, sembra quasi suggerire l’oscuramento di qualsiasi possibilità di riscatto morale e opportunità di un ulteriore deprimente sguardo.

Perfettamente suggestiva e variegata la colonna sonora di Bacalov che attraversa il film con il suo leitmotiv intriso di quella triste dolcezza che è tipica della melodia argentina, sviluppandosi in diversi arrangiamenti: talvolta per il respiro di struggenti archi che navigano su arpeggi veloci di piano oppure sospesi accenni di chitarra intervallati da attimi di nevrotici passaggi staccati dove subentrano i tipici ritmi serrati del poliziesco o sarcastiche variazioni dal sapore di samba.

l film era uscito in Italia nel 2006 per la collana
“I Grandi Registi” edita e distribuita dalla Warner Bros in formato DVD, fuori catalogo da tempo.
L’edizione Blu ray da me visionata è quella restaurata da Movietime / Museo del cinema di Torino, pubblicata dalla Mafarka Home Video quest’anno per la serie “Italian Cult Collection”: un ben curato slipcase di giallo dominante con amaray trasparente e copertina a stampa bifacciale che mostra due diverse locandine (nella foto quella scelta per l’esterno) – codice EAN: 7427251804271. Tiratura limitata a sole 300 copie, quindi affrettatevi…

A cura di Luigi Maria Mennella © 2022.


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