Boiling Point – Il disastro è servito

Approdato alla regia con alle spalle un’attività quasi trentennale di attore (ma non solo), l’inglese Barantini riprende in mano l’idea di un precedente corto per questo lungometraggio che sceglie la difficile, ma coraggiosa strada del piano sequenza unico. Reale, senza quei necessari o astuti stacchi di montaggio che da Hitchcock a Inarritu alcuni cineasti hanno adottato. A mio avviso la forma di ripresa cinematografica più vicina alla performance teatrale, scevra dalla comodità del singolo e reiterato take e oberata della responsabilità / missione di concludere un atto barcamenandosi tra qualsiasi imprevisto di scena. E quasi a memoria di questa constatazione non sono certo gli imprevisti che mancano nel corso del film, frenetico, ma ben concertato, ove l’unico momento di riposo (leggi “crollo”) è solo quello che sembra introdurre un prosieguo, ma che altro non è che il catartico preambolo di un beffardo, cinico epilogo. Assolutamente delizioso l’intersecante quadro, quasi documentaristico, di tutte quelle realtà umane (dal parvenu cafone e razzista agli inappropriati influencer in delirio da protagonismo) che affollano il ristorante stellato; struttura che nella sua ampiezza situazionale costituisce pressoché la location unica di una rappresentazione tragicomica. Graham -così come la Robinson, su un registro diverso- offre una prova attoriale che non dimentica la verità anche quando il parossismo minaccia (re)azioni sopra le righe. Ma a onor del vero l’intera direzione attoriale è degna di plauso grazie a una scelta di casting ove la diversità fisica va ben oltre la coercizione inclusivista e fa della diversità culturale e umana un potente strumento di scrittura dei singoli personaggi: importanti tasselli in lavori di narrazione e costruzione corale come questo.