Fury

di David Ayer (2014)

durata: 134’
produzione: USA, Cina, Regno Unito
cast: Brad Pitt, Shia LaBeouf, Logan Lerman, Michael Peña, Jon Bernthal, etc.
sceneggiatura: David Ayer
fotografia: Roman Vasyanov
musica: Steven Price

Non amo la guerra, tanto meno i film -salvo rare, indiscutibili eccezioni intellettualmente oneste- che pur anche ingenuamente finiscano con operarne tramite l’eroismo (non esplicitata maschera dell’assuefazione) un’edulcorata apologia. Al contrario questa pellicola di Ayer sembra muoversi su un sentiero diverso: ha il pregio di miscelare attimi autoriali (es. il variegatissmo simbolismo della liberazione del cavallo bianco), perle di “saggezza” quasi socratica nelle asserzioni del paternale (non a caso “Wardaddy”) Pitt, ma anche estrema crudezza (es. brandello di faccia all’interno di un carro armato nazista espropriato, le secchiate di sangue gettate fuori dall’accampamento o la poltiglia umana schiacciata dal mezzo corazzato). Il cast è stato sottoposto a un duro allenamento a opera della NavySEALs, ha patito fame e freddo e la resa performativa è effettivamente convincente, quasi catartica. Analogamente è interessante la non inedita (si pensi al “Lebanon” di Samuel Maoz), ma sicuramente non frequente prospettiva scelta: quella attraverso le anguste fessure del carro armato, sorta di vascello (ma sarebbe più corretto parlare di sottomarino) fantasma la cui vita a bordo riunisce persone diverse, ma che ritrovano un’identità comune pur nella legittima diversità individuale. Purtroppo a 1h e 30’ ca accade quel che spesso è prevedibile: la piò bròta da scurghé l’è seimpre la còda…(“la coda è la più lunga da scorticare”) …e il film, tutto sommato fino a quel momento appassionante, risente repentinamente degli inattesi e deludenti risvolti di scrittura; triti e pacchiani quasi quanto le variopinte e anacronistiche scie colorate degli spari. ATTENZIONE SPOILER: l’eroico sergente si fa prendere la mano e decide di affrontare da solo più di 200 soldati. ’Ovviamente’ non sarà lasciato solo dalla sua squadra (una manciata di persone). L’indice sta per espellere il blu ray quando arriva il peggio: Wardaddy esterna improvvisamente la propria fede, sorta di – mi si perdoni la facile associazione – contraltare a quella patriottica fino a quel momento professata. E’ la fine (anticipata). Solo il buon senso -pietà del soldato tedesco verso il soldato americano, giovane anch’esso/utopistico attimo metaforico di fratellanza a parte- riporta verosimiglianza nell’epilogo. Finale purtroppo inesorabilmente compromesso da un superomismo che -confidenza del protagonista con il tedesco a parte- ha ben poco a che spartire con l’Übermensch nietschziano.

A cura di Luigi Maria Mennella © 2024.


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