titolo originale: “The power of the dog”
durata: 126’
produzione: Regno Unito, Australia, Nuova Zelanda, Canada
cast: Benedict Cumberbatch, Kirsten Dunst, Jesse Piemons, Kodi Smit-McPhee, etc
sceneggiatura: Jane Campion (adattamento dell’omonimo romanzo di Thomas Savage)
fotografia: Ari Wegner
musica: Jonny Greenwood
Atteso ritorno della regista neozelandese (assente dal 2009 con l’ugualmente ottimo “Bright Star” dedicato alla vita del poeta John Keats) che proseguendo sul cammino del suo consueto approfondimento di personaggi femminili oppressi o problematici, amplia lo spettro di questa indagine a quanto di femmineo risiede anche nella controparte maschile. Nachlass emotiva e di disagio represso da auto-convincimento machista, specchio di una fragilità recondita che neanche la sporcizia di tanti bagni saltati o una snervante, logorante aggressività verbale riescono pienamente a mascherare nel personaggio principale di Phil [Benedict Cumberbatch]. Aggressività che colpisce tutte le persone vicine, sia che si tratti di figure care [il serafico e paziente fratello George / Jesse Plemons] che mal viste [la cognata Rose / Kirsten Dunst, a cavallo tra vulnerabilità e ribellione passiva] che infine fatalmente catartiche [lo spettrale e macchiavellico figlio di lei, Peter/Kodi Smit-Mc Phee]. Aggressività che tuttavia non risparmia neanche se stesso, a partire da una formazione culturale accantonata, una sensibilità musicale emarginata, una necessità di amore che sul piano fisico trova sfogo solo nell’onanismo feticistico e su quello mentale si proietta verso un pigmalionismo che verrà ripagato con l’antrace. L’universo che la Campion dipinge è un mondo dominato dalla solitudine – accentuata da abili campi lunghi e lunghissimi – dove la transumanza del bestiame funge quasi da metafora per lo spostamento delle anime dei protagonisti verso una nuova vita e condizione dell’essere. Mentre come un’ombra George diventa sempre più marginale (salvo l’iniziale colpo di coda di un matrimonio segreto) al corso degli eventi, la già delicata Rose lentamente soccombe alle nuove soffocanti dinamiche familiari. E a poco serve la sua determinazione nel donare ferree prospettive di vita a un figlio troppo sensibile per la forma mentis del contesto storico e pubblicamente sbeffeggiato per i modi effeminati (l’omofobia resta per tutto un film una nota suonata in sordina). Ragazzo che però si rivelerà – impietoso come la vivisezione del suo coniglio – deus ex machina in questa storia d’impantanamento emozionale e presa di coscienza. Sorta di angelo della morte che con metodi agatachristiani, Peter libera i restanti personaggi dalla propria schiavitù mentale e suggella con un sorriso finale un ritrovato equilibrio familiare. Cammeo di Keith Carradine nei panni di un deliziosamente diplomatico governatore in visita a casa Burbank (ottimamente scenografata). Complessivamente eccelsa la compagine attoriale. Efficace e simbolica la fotografia che con i suoi marcati chiaroscuri sembra quasi voler sottolineare la conflittualità volitiva ed emotiva dei personaggi. Musica dal contrastante taglio moderno e volutamente snervante del chitarrista dei Radiohead, che bilancia adeguatamente lo scorticamento dell’anima dei personaggi nei loro momenti di frustrazione quotidiana.
Al momento non arrivato nel mercato home video italiano, ma visionabile su Netflix.
A cura di Luigi Maria Mennella © 2022.
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