titolo originale: “Memoirs of a Geisha“
durata: 144’
produzione: USA / Giappone
cast: Zhang Ziyi, Gong Li, Ken Watanabe, Michelle Yeoh, Kōji Yakusho, Kaori Momoi, Suzuka Ohgo, Youki Kudoh, Tsai Chin, etc
sceneggiatura: Robin Swicord
fotografia: Dion Beebe
musica: John Williams
C’è un cinema che racconta storie e un altro che racconta la storia. Trasversalmente è chiamata in causa la professione tradizionalmente giapponese della geisha, per molti ancora assimilabile a quella di mera prostituta, ma di ben altro – a partire dall’etimo stesso del termine (sintetizzabile in “artista”) – si tratta. E in questo quadro è interessante il riedificante (nei limiti della moralità consentita) approfondimento storiografico di questa figura emblematica sopravvissuta fino all’intercorrere della Seconda Guerra Mondiale con cui l’abile coreografo/regista teatrale Marshall – qualitativamente immancabile nella trasposizione delle sue competenze in ambito cinematografico – si confronta. Non peripatetica da ribaltabile, né escort per pochi portafogli, ma suadente creatura la cui vita è stata deputata fin dall’infanzia (negata) all’intrattenimento di clienti facoltosi, ma solo a seguito di un lungo apprendistato (maiko) di severi studi che oscillano dalla danza, portamento, canto, cerimonia del tè, etc con qualche concessione sessuale che oscilla da una vera e propria iniziazione (mizuage) messa all’asta alla concessione a cliente-marito ufficiale (danna). Tutto il resto è trasgressione, umanità e istinto non tollerato e vissuto clandestinamente dove occorso. L’amore è un concetto che mal collima con le logiche finanziarie che regolano tutte le dinamiche dell’ambiente e che possono sopravvivere solo nel feticistico, ma romantico fazzoletto che la protagonista conserva per buona parte del film. Ma sempre meglio della miseria: e qui s’innesta l’incipit della storia della suddetta (s)fortunata figlia di pescatore con consorte gravemente malata, costretto a venderla insieme alla sorella maggiore. Paradossalmente il passaggio dalla schiavitù della miseria a quella di una discutibile ascesa para-sociale veniva percepito come significativo traguardo. Non ci si stupisca quindi che una bambina [Suzuka Ohgo] devolva una sorta di obolo (denaro ricevuto dall’amore della sua vita) nella preghiera per il conseguimento di questo agognato status di “geisha”, forse unico modo per stare al suo fianco. Il finale è forzatamente positivo, ottimistico, decisamente fuori luogo a cavallo di una guerra che ha coinvolto corpi e anime, ma sorvoliamo: di piedi ne sono stati pestati abbastanza. A partire dal tasto dolente toccato dal film: la deportazione di avvenenti donne cinese in Giappone per scopi di prostituzione durante il conflitto sino-giapponese. Memoria anti-nipponica risvegliata dal fatto che le protagoniste principali del film [Zhang Ziyi, Gong Li e Michelle Yeoh] fossero cinesi, anche se chiamate a interpretare un ruolo giapponese. Sorpassato questo ostacolo culturale, la lunga durata del girato è impeccabile, in un tripudio di ottima fotografia, scenografia, costumi, il consueto carisma di Gong Li – ormai iconicizzato in oggetto di desiderio trans-culturale – a cui è affiancato il fascino post-editato di Zhang Ziyi (“con occhi del colore della pioggia”), già precedentemente consacrata da pellicole come “La tigre e il dragone”, “Hero” o “La foresta dei pugnali volanti”. L’ex trombettista Ken Watanabe sopravvissuto a leucemia, epatite C e cancro allo stomaco nella vita e qui – mi sembra il minimo – alla guerra si conferma come piacevole figura parallela di raccordo nel costrutto attoriale. Qualche frase sdolcinata, al contrario momenti di grande poesia visiva (il lavaggio dei lunghi drappi nel fiume), boicottaggi ‘professionali’ tra colleghe con tempistiche da GPS ante litteram, ma complessivamente una pellicola che senza infamia né lode (valore estetico a parte, indiscutibile e ampiamente premiato) affronta una tematica e la storia possibile di tante donne che in quel periodo hanno dovuto sperare di esser costrette a fare una scelta difficile piuttosto che subirne un’altra imposta da un destino ben più infausto. Prodotto da Steven Spielberg: musica ovviamente di John Williams.
A cura di Luigi Maria Mennella © 2022.
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