Pellicola che analogamente al coetaneo “Rollerball” di Jewison traduce la constatazione dello sport/agonismo come surrogato laico dell’oppio d’intuizione marxista, peraltro senza dover scomodare il ricordo di quanto ben prima si allestiva nell’Anfiteatro Flavio: diversivo nell’accezione ludica, così come in quella politico-attivista che si tinge di una violenza resa naturale tanto dall’iperbolica involuzione del tessuto sociale quanto dalla mera necessità comunicativa dell’autore.
titolo originale: “Death Race 2000”
durata: 76’ / 80’
produzione: USA
cast: David Carradine, Simone Griffeth, Sylvester Stallone, Mary Woronov, Roberta Collins, Sandy McCallum, Harriet Medin, Martin Kove, Leslie McRay, etc
sceneggiatura: Robert Thom, Charles Griffith
fotografia: Tak Fujimoto
musica: Paul Chihara
A visione ultimata dei vari “Death Race” ispirati da questa pellicola (come sempre coraggiosamente) prodotta da Corman non ho potuto far a meno di riguardarmi l’originale di Bartel; un po’ per nostalgia, un po’ per constatare per l’ennesima volta quanto la spettacolarizzazione tecnologica odierna alle volte rischi rispetto al passato di immolare la metacomunicazione sull’altare dell’intrattenimento visivo. Stimolo alimentato anche dall’ottimo restauro in HD che rende il film ancor più inquietante grazie alla patinatura acquisita (N.B. i frames li ho estrapolati dalla versione DVD, comunque superiore alla precedente analogica e di cui si può avere un’idea visualizzando i “crediti italiani” presenti tra i contenuti speciali del BD).
A un’attenta analisi la gara di sopravvivenza automobilistica diventa solo il collante narrativo per messaggi di spietata condanna, tanto dell’inebetimento delle masse quanto della manipolazione che di queste fa un potere forte del consenso che esse stesse donano spontaneamente sotto la fascinazione di una violenza legalizzata.
L’ipocrisia dei media, perfettamente sintetizzata nella giornalista che dichiara la solidità della propria amicizia praticamente a chiunque abbia avuto a che fare con lei o nel collega che ‘interpreta’ gli eventi imprevisti in un’ottica filo-istituzionale sancisce la totale assuefazione della massa; e trova il suo apice nella surreale premiazione televisiva della vedova della prima “grande segnatura di Joe Mitraglia”, che vince così un televisore tridimensionale ortofonico per assistere alla prossima edizione dell’evento nel migliore dei modi.
Il benessere di una minoranza oligarchica – senza dover troppo parafrasare quanto pubblicamente asserito dal Presidente [Sandy McCallum] – diviene quindi il prezzo da pagare per avere una nazione forte e capace di tramandare la tradizione ‘onirica’ americana del “vinca il migliore”. Il popolo dunque preferisce sostenere un leader che giocando su un nazionalismo viscerale di chiaro richiamo nazista – per dirla alla maniera di Giovenale – con la vecchia solfa del panem et circenses mantiene l’ordine e il consenso. Unica eccezione e moto di coscienza quello della Resistenza che cerca fino all’ultimo minuto di sabotare la gara e ricordare alla massa, anche con trasmissioni pirata, il patrimonio culturale repubblicano tramandato dalla lungimirante politica liberale e democratica di Lincoln. Non a caso a capo di essa troviamo una sua discendente, ironicamente di nome “Abramina” [Harriet Medin].
I richiami al nazismo sono evidenti [e purtroppo assenti nel più recente remake di Paul W.S. Anderson – articolo QUI] anche nella politica eutanasiaca applicata alla gara con l’assegnazione di un punteggio variabile per ogni pedone investito. Punteggio che sale quando riguarda creature deboli (es. donne e bambini) e impenna sugli anziani, socialmente meno utili in ottemperanza dell’Aktion T4.
Il personaggio ambiguo di Frankenstein [David Carradine], emblemizzato dalla presidenza e adorato come sua estensione popolare in tal senso trova addirittura persone / fan capaci di offrire la propria vita (nella pratica facendosi trovare sulla strada pronte a essere investite) in nome di questa cieca idolatria. Come un eroe di guerra e metafora vivente dell’invincibilità del Sistema Americano Frankenstein vive la sua esistenza mediatica alimentando la convinzione di leggendarie ferite e ricostruzioni corporali (solo la mano è una protesi che cela una bomba e per questo sempre nascosta da un guanto), al punto anche da indossare una maschera della maschera; ossia qualcosa che pubblicamente preservi la dignità estetica della propria condizione di combattente, ma privatamente celi dietro fasulle lesioni epidermiche e cicatrici posticce la perfetta normalità, televisivamente poco allettante di uomo.
Tanto normale da affrontare un percorso di autocoscienza che parte dalla scelta di guadagnare meno punti investendo medici e infermieri carnefici al posto di anziani paraplegici, poi lo stesso giudice e diacono del Partito Multilaterale (evento senza precedenti che comporta una rapida decisione sull’opportunità o meno di assegnare punti anche in questo caso) e si conclude con l’assassinio a lungo desiderato del suo Presidente / Burattinaio.
Interessante parentesi da aprire sull’abbigliamento di questo, uguale per omologazione ideologica ai suoi collaboratori, giocata su accostamenti monocromatici militareschi su cui spicca l’acceso rosso di un garofano, ab origine emblema socialista.
Il medesimo fiore ricomparirà bianco (e purificato) appuntato sull’abito di Frankenstein, convogliato a nozze e disposto a commettere in qualità di nuovo presidente l’ultimo obbligatorio omicidio: quello dell’esaltato e cinico cronista Junior Bruce [interpretato dall’appariscente DJ “The Real Don Steele”, particolarmente celebre negli anni ’60, ma ritiratosi prematuramente per l’insorgere di un cancro] che si oppone alla sua volontà riformativa di abolire la gara automobilistica e la necessaria violenza a essa sottesa.
Tornando in superficie…la caratterizzazione dei piloti non è meno kitsch dei veicoli (tra cui una menzione particolare va all’inguardabile auto-drago di Frankenstein) che nel loro appeal folkloristico che infiamma le folla di spettatori diventano lo specchio di un degrado anche estetico.
Citandoli a caso…
Calamity Jane [l’attrice/pittrice cult Mary Woronov, collaboratrice di Andy Warhol], dal mood texano e che guida la proprio auto cornuta contro un occasionale pedone-torero.
Cesare [Martin Kove, rinomato per il suo ruolo di Sensei John Kreese nella saga di “Karate Kid”] che mangiando uva rimprovera perché lo impalla durante gli scatti dei fotografi la sua navigatrice, Cleopatra [Leslie McRay, nota anche per discinti ruoli in pellicole come “Girl in gold boots”, “Bummer” o “Blood Orgy of the She-Devils”].
Grimilde la Nibelunga [Roberta Collins, nell’originale chiamata però “Matilda the Hun”, nota per la sua somiglianza con Marilyn e ruoli in film exploitation e il “Mangiato vivo” che Tobe Hooper girerà l’anno dopo], a bordo di un veicolo pseudo-militare e che con tratti teutonici e svastica sul casco non lasciano molto spazio alla fantasia in merito al suo orientamento politico.
E come non dimenticare lo scorbutico e frustratamente brontolone Mitraglia-Joe [Sylvester Stallone pre-fama post-Rocky e visibilmente non completamente ripresosi dalla Paralisi di Bell] che mitragliatrici Thompson e baionette sul cofano a parte ha forse l’auto più sobria.
Cammeo iniziale del regista Paul Bartel nei panni del chirurgo di Frankenstein, così come troviamo il regista John Landis tra i meccanici di gara.
Ruolo chiave invece per Annie Smith [sensuale e snodatissima Simone Griffeth], navigatrice e voce della coscienza (è la nipote di Abramina Lincoln) di Frankenstein di giorno, appassionata amante di notte: fotografia (affidata al collaboratore abituale di Demme) e movenze ci consegnano il saltuario ricordo del precedente (1968) “Diabolik” (ed Eva) di Mario Bava.
E a tal proposito completano la nostalgica godibilità del prodotto escamotage effettistici come l’applicazione sull’obiettivo di vetri dipinti con paesaggi futuristici per ovviare ad alti costi scenografici e un montaggio molto dinamico, con evidenti, ma gradevoli accelerazioni nello sfrecciamento dei veicoli. Perfettamente armonizzati del contesto impregnato di humour nero (ma anche di terribile miscela di sangue finto) i numerosi attimi splatter, così come il commento sonoro che alterna groove funk-psichedelici tradizionali a ossessivi passaggi di synth.
Quello che abbiamo tra le mani è un piccolo gioiellino distopico dai tratti grotteschi capace di veicolare (in tutti i sensi) attraverso un’estetica che accarezza spesso il kitsch un sottotesto di forte critica socio-politica, tanto attuale quanto retrospettiva.
Il film è uscito in Italia nel 2011 per la Pulp Video e distribuito dalla Mustang Entertainment sia in doppio DVD che l’anno dopo in BD, entrambi fuori catalogo.
Blu ray da me visionato: classico amaray blu, con copertina a stampa bifacciale – codice EAN: 8033650555097.
Il restauro presenta l’integrazione di alcuni minuti extra (qui lasciati con l’audio originale e l’opzione della sottotitolazione in italiano).
A cura di Luigi Maria Mennella © 2022.
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