Death Race

di Paul W.S. Anderson (2008)

Licenzioso remake del cult settantiano prodotto da Corman, il film – primo di una serie – rappresenta il tipico esempio di cinema d’intrattenimento dove gli stereotipi diventano certezze edonistiche e qualsiasi aspettativa creativa può perfino arrivare a sembrarci maleducata…

sceneggiatura : Paul W.S. Anderson
durata: 105’/111’
produzione: USA
cast: Jason Statham, Joan Allen, Ian McShane, Tyrese Gibson, Jason Clarke, Natalie Martinez, Max Ryan,Frederik Koehler, Robin Shou, etc
fotografia: Scott Kevan
musica: Paul Haslinger + tracce di Stereophonics, Slim Thug, Spiderbait e Mary J. Blige

“Remake”…già questa parola – confesso – mi fa spesso rabbrividire, ma considerando la distanza temporale dall’originale diretto da Bartel (“Anno 2000 – La corsa della morte”, 1975 – ARTICOLO QUI), distanza che ha una sostanza anche tecnico-formale e politico-generazionale, tutto sommato il film ha serenamente motivo di esistere senza dover, come spesso accade, ipotizzare un lucroso sfruttamento d’immagine…tanto è diversa l’estetica (ma non solo) che accompagna questo lavoro più recente.

Indubbiamente più crudele sotto l’aspetto visivo che culturale (prima importante mancanza rispetto all’originale l’assegnazione di punti per ogni pedone investito, con valutazione più alta per gli anziani in un’ottica eutanasiaca), questa nuova versione traduce per la diversa sensibilità e capacità percettiva contemporanea quanto precedentemente – pur con un’esplicazione visiva kitsch – teorizzato. E lo fa attraverso il filtro dei mezzi tecnologici resi possibili dal cinema attuale; quasi al punto da sovrastare con l’effetto l’entità stessa del messaggio.
Non stupirà quindi se la grande corsa assume i connotati di un videogame a livelli con character-design degno di una console e le tre giornate dell’evento vengono vendute in pacchetto streaming scontato.

E soprattutto non deve stupire la serie di ovvietà e reinfarinatura che accompagna i molteplici aspetti della caratterizzazione attoriale o sviluppi di sceneggiatura, che fin dall’inizio si mostra trita come il battuto di cipolla della moglie del protagonista: le effusioni con il marito saranno interrotte dal pianto della figlia neonata.
Detto in altri termini: pensate a una tipologia di personaggio o una determinata situazione narrativa, procedete per approssimazione statistica ed esperienza fruitiva e senza sbagliare di una virgola assisterete esattamente a quello che vi aspettate di vedere, che avete visto decine di volte e probabilmente non vi stancherete di rivedere in futuro.
Tutto è esattamente dove deve essere collocato: il macho “ingiustamente carcerato” che finisce in un ‘prison movie’, un po’ ‘apocalyptic’, dove tra sviluppi d’ ‘cinema d’evasione’ e propositi ‘revenge’ non mancano becere pennellate riflessive su un substrato distopico più esile se paragonato al capostipite, girato oltre 30 anni prima con poveri, grotteschi mezzi, ma intrisi di humour nero.

Ciò nonostante il prodotto è godibile, non fraintendiamoci: come accennato è quel genere di film (vale anche per gli altri della serie) da vedere più per svago (e in questo è efficace, complice forse la pesantezza del periodo che stiamo vivendo…) che per desiderio di significazioni metavisive…
Si sorvola facilmente tanto su una doccia post-arresto con idrante di rambiana memoria, quanto sul bullismo di mensa carceraria visto in 750 altri film. E se quando Elizabeth, un’avvenente ragazza [la modella Natalie Martinez, cubana tanto nell’origine quanto nelle movenze sensuali] entra in scena parte una musica sexy non bisogna storcere il naso: fa tutto parte del pacchetto.

Compreso l’algido e macchiavellico direttore della struttura penitenziaria [l’elegante Joan Allen] che procede a bastone e carote contro il protagonista Jensen Ames [l’ex tuffatore, modello, etc Jason Statham, interprete d’azione di pellicole dirette da Guy Ritchie e poi cammeizzato nell’allineato Fast & Furious / talmente macho da non rasarsi l’alopecia e girare spesso senza controfigure], virile per struttura anatomica e dettagli di look, ma pronto a sciogliersi davanti alla foto della figlioletta e azzardare primordiali riflessioni genitoriali. E lo stesso dicasi per l’autolesionista antagonista Machine Gun Joe [Tyrese Gibson, anch’egli futuro ripescaggio negli ultimi episodi di Fast & Furious] – si noti, profilato specularmente (di colore e gay) e contrariamente all’originale ‘Mitraglia-Joe’ / Sly – tanto spietato nell’eliminare a proprio capriccio i propri navigatori, quanto disposto ad aprire – dopo una sorta di razionale e forse sentimentale redenzione – un’officina con il suddetto a fine film; epilogo che vede riuniti anche Elizabeth e la figlia di Jensen recuperata dai genitori affidatari, in una sorta di famiglia allargata.

Simpatiche le caratterizzazioni di alcuni personaggi secondari come Coach, uomo libero che decide di restare in carcere per non affrontare l’abbrutimento della società odierna [l’ottimo attore britannico Ian McShane, reso celebre da Zeffirelli come Giuda nella fortunata serie “Gesù di Nazareth”] o l’assistente d’officina semi-autistico Lists [Frederick Koehler], che a tratti ricorda una versione dell’interprete di “The Good Doctor” sporca di grasso per motori: balbuziente, impacciato, ma capace di uccidere un uomo con una penna biro.

Fugace la presenza di 14K [l’artista marziale/stuntman cino-americano Robin Shou], unico laureato (al M.I.T.) del carcere e membro della Triade: personaggio a modo suo positivo e uomo d’onore, che per essere apprezzato a pieno richiede la visione almeno di “Death Race 2”.
Meno riuscite altre caratterizzazioni, come lo scialbo (di pelle e carisma) braccio destro del direttore, Ulrich [Jason Clarke] o il pilota/sicario Pachenko [Max Ryan], con il fantasioso numero di matricola “6…66” (…) che uccide a inizio film la moglie di Jensen per incastrarlo e portarlo (a gareggiare) in prigione; capo di una confraternita ariana e quindi unico trait d’union culturale con il nazismo del film originale.
Cammeo vocale e dovuto omaggio iniziale al Frankenstein della pellicola che ha ispirato questo film con l’inossidabile David Carradine, che nei dialoghi originali doppia l’omonimo protagonista alla sua ultima corsa.

Le auto corazzate sfrecciano tra fumo denso e fiumi di pallottole: le pericolose riprese automobilistiche che ‘ovviamente’ non esitano ad attingere al milleriano “Fury Road” sono ben girate, e fatta eccezione per alcuni momenti dove il montaggio è talmente frenetico che alla minima disattenzione resta difficile capire esattamente cosa succede, sono sempre abbastanza lineari, non eccessivamente didascaliche e senza troppi fronzoli tecnici automobilistici. E cosa ancor più importante mai tediose; nonché adeguatamente splatter. Un paio di scena a caso: la morte di Grimm [il caratterista italo-portoricano iper-tatuato Robert LaSardo], che ricorda un po’ quella nello scagnozzo di Boddicker nel “RoboCop” di Verhoeven; oppure la navigatrice maciullata dalle lame rotanti del temibile camion corazzato (chiamato nel film “Dreadnought”), che per un istante mi ha portato alla mente un mix mnemonico tra l’auto di Crater Face in “Grease” e i carri usati contro Hercules nell’omonimo film di Cozzi.

L’espulsione della bombola di napalm (usando il sedile del navigatore) che centra una trave e versa il combustibile sulla macchina che insegue e viene data in fiamme grazie a Elizabeth …a sua volta affacciata dal veicolo in corsa …e che la centra con un accendino è un tipico esempio di sceneggiatura scritta al ce… …dere degli stimoli creativi, ma fa tanto dire “f#####g cool!” agli americani…
Apoteosi nerd: nella versione blu ray del film è presente anche una modalità interattiva che consente di registrare i momenti salienti di tali corse sfruttando la prospettiva / inquadratura delle diverse telecamere utilizzate durante le riprese e rivedere quindi alla fine il tutto con un diverso montaggio.
Escludendo alcuni momenti ‘pop’ di basso spessore drammaturgico (es. il teriomorfismo dell’uscita panterosa delle ragazze-navigatrici dal bus tra i carcerati allupati, accompagnate dal brano “Grown Woman” eseguito dalla cantante R&B/Soul Mary J.Blige) o altri dove la musica di diverso genere è assolutamente adeguata al contesto narrativo (es. l’efficace “Click Clack” del rapper Slim Thug) il contributo sonoro sicuramente più importante è quello che alterna sonorità modern classical, elettroniche e post-metal strumentale a opera di Paul Haslinger, tra gli altri (Lustmord, Lightwave, etc) prolifico collaboratore in studio e dal vivo per cinque anni nella storia della leggenda krautrock denominata “Tangerine Dream” prima di abbracciare una gratificante carriera solista.

Come prevedibile il film ha avuto un seguito, ma a differenza dell’originale che vide la realizzazione di un film ambientato in un periodo storico successivo (“I gladiatori dell’anno 3000”, Allan Arkush – 1978, a memoria mai arrivato sul mercato home video italiano e reperibile solo in lingua originale come “Deathsport”), il successivo “Death Race 2” (scritto e prodotto da Anderson nel 2010, ma girato da Roel Reiné) è in realtà un interessante prequel che racconta le origini di molti personaggi; in primis “Frankenstein”. E da qui si prosegue la narrazione con il successivo “Death Race 3 – Inferno” (sempre di Reiné, 2013) e “Death Race – Anarchia” (aka “Death Race 4”, 2018, diretto da Don Michael Paul). Il “Death Race” di Anderson quindi è in un certo senso il capitolo conclusivo. Tant’è che (a questo punto citiamoli tutti) “Death Race 2050” del 2017 (regia di G.J. Echternkamp) altro non è che un reboot del primo film di P. Bartel, sempre sotto l’egida produttiva di Corman.

Il film è uscito in Italia nel 2009 per la Universal e distribuito dalla stessa sia in DVD che BD, ma sono stati pubblicati successivamente combo vari comprensivi del primo e secondo sequel fino alla più recente (2020) edizione della trilogia – come sempre ben curata – prodotta dalla Midnight Factory.
Blu ray da me visionato: classico amaray blu, con copertina a stampa monofacciale. Prima edizione, extended version, quindi 111’ (in realtà nessun taglio di crudeltà, ma solo accorciamento di alcuni dialoghi), codice EAN: 5050582700220, fuori catalogo.

A cura di Luigi Maria Mennella © 2022.


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